La rivolta, la paura, la speranza. La terza vita di Dauda in Italia

Fuggito da Tripoli, ha 19 anni. Vive nel campo della Croce Rossa di Bresso di Enrico Fovanna

Dauda mostra i segni delle bruciature di sigaretta

Dauda mostra i segni delle bruciature di sigaretta

Bresso, 28 agosto 2015 - Pedalando sulla ciclabile che porta al Parco Nord, dopo avergli lanciato uno sguardo neutro, a metà tra la diffidenza e la paura, mamma e nonno, con bimbo sul mini sedile della bici, oltrepassano il ragazzone nero. Dauda, 19 anni, aveva appena sollevato i pantaloni al ginocchio, per mostrare al cronista i segni delle torture, souvenir indelebile del carcere di Zavia, un lager a 18 chilometri da Tripoli. Gliele hanno regalate quelli che lui chiama “gli arabi”, gli sgherri della famigerata polizia tribale nella Libia del dopo Gheddafi. Dauda sa cosa accade attorno a lui. Forse capisce che tra i tanti fiori del silenzio c’è proprio la paura.

È un giovane robusto, senza sorriso, abituato a non avvertire di frequente i sorrisi degli altri, e non si scompone. Sa che lui e gli altri 400 rifugiati, ospiti nelle tende blu della Croce Rossa vicino all’aeroporto, sono guardati quantomeno con sospetto dai più, quando non con avversione. Specie dopo la rivolta di lunedì fuori dal centro, dove in molti hanno bloccato il traffico per Milano, invocando quel permesso temporaneo che consentirebbe di espatriare o di cercare lavoro. Certo, una pacca sulla spalla ogni tanto e due parole buone, lascia intendere, non guasterebbero. Ma il passato, l’inferno da cui fugge, è talmente ingombrante da non lasciare troppo spazio ad altri pensieri. Ingombrante quanto il peso di un futuro che non c’è. O quantomeno non si vede.

Dauda è un cristiano che abitava nelle regioni meridionali del Senegal, dove perdura una guerra civile tra governativi e ribelli. Suo padre era della polizia. Una lettera anonima e un colpo di machete nella notte glielo porteranno via. Nel piccolo villaggio, Dauda si ritrova con mamma e fratello, senza cibo e senza possibilità di procurarselo. Nel 2013 cerca una nuova vita in Mali, poi in Libia, dove si favoleggia ci sia del lavoro per tutti. Vero, in effetti, ma senza stipendio. Lo sbattono in carcere per nove mesi, torturandolo quasi ogni giorno con sigarette accese e pratiche di antica tradizione. Per sopportare il dolore, prega. Una rivolta in carcere gli consentirà di fuggire da una finestra, con altri detenuti, ma il tassista che li deve accompagnare al porto annusa l’affare e li consegna a poliziotti che intrattengono un mercato di schiavi. Mille dinari per tornare in libertà, o i lavori forzati. Alcuni compagni di sventura se la cavano con il money transfer, facendosi spedire il denaro dalla famiglia. Lui non ha due opzioni. Ma nella sfortuna, capita in mano a un agente “buono”, che lo fa lavorare tre mesi da muratore, poi lo prende a cuore e lo imbarca, covincendo lo scafista, pistola alla tempia e documento fotografato, a portarlo a Lampedusa gratis.

Dauda sa di essere a suo modo fortunato. In fondo poteva esserci anche lui tra i cinquanta cadaveri trovati ieri nel cassone di un camion su un’autostrada austriaca. O tra gli altrettanti profughi morti per asfissia 24 ore prima, nella pancia di una chiatta arrivata in Sicilia. Invece è qui, sotto il sole e nel verde. Non certo al suo terzo carcere. Entra e esce quando vuole, anche se di notte in otto in una tenda e con l’umidità al 100% si dorme male. A Bresso ormai da cinque mesi, dovrebbe essere felice, addirittura sollevato, ma non lo è. Vorrebbe, in cambio della propria odissea, portare ai piedi almeno dei sandali non rotti. Vorrebbe lavorare (“per la mia dignità”, dice, ma anche per un assaggio di indipendenza). Gli piacerebbe soprattutto chiamare più spesso sua madre, al villaggio. Riesce a farlo ogni tre mesi, invece, forse a causa del complicato meccanismo che regola il traffico delle tessere da due euro e mezzo, che anche lui riceve ogni giorno, come gli altri, e che spesso rivende a molto meno, per convertirle in denaro. «Cosa ci diciamo al telefono? - ammicca mentre un’altra mamma con bimbo passa in bici accanto a lui, questa volta sorridendogli – Per non farla soffrire dico sempre che sono felice, che qui la vita è bella e che non ci sono problemi... Un giorno spero di rivederla».