Tasse pazze e indennità svanite: ecco la giungla dei frontalieri

Le storture Italia-Svizzera. La Uil: «Ora uno statuto dei lavoratori» di Luca Zorloni

Dogana al confine tra Italia e Svizzera

Dogana al confine tra Italia e Svizzera

Milano, 20 settembre 2014 - Per la legge italiana non esistono, nonostante siano circa 82mila persone. Sono i frontalieri italiani. Provate a cercare una norma che li identifichi: auguri. È tutto demandato alla giungla di accordi bilaterali con i singoli Paesi, dalla Svizzera a San Marino, in un accavallarsi di leggi che per il segretario generale di Uil frontalieri, Pancrazio Raimondo, nella maggior parte dei casi produce un solo, desolante, risultato: «La discriminazione del lavoratore». Da qui la proposta al governo Renzi: scriviamo uno statuto dei lavoratori frontalieri. Ovvero un sistema che colmi le lacune in materia di «sicurezza sociale, fiscale e legislazione sul lavoro. Dobbiamo trovare criteri di regolamentazione che tutelino le persone». Finora Roma si è dimostrata sorda, nonostante dal 2013 giaccia sugli scranni del Parlamento una mozione sul tema, ma a quarant’anni dal negoziato tra l’Italia e la Svizzera, meta di circa 69.400 lavoratori di confine (per lo più dalle province lombarde di Varese, Como e Sondrio), Uil torna all’attacco. «Il negoziato va in scadenza a breve — osserva Raimondo —, ma come lo rifacciamo?». Prendiamo il caso della cosiddetta «fascia di confine»: 20 chilometri dalla frontiera tra Italia e Svizzera che determinano come si pagano le tasse. Chi è dentro, come un residente a Como, ha la ritenuta alla fonte in Svizzera e non deve presentare una dichiarazione in Italia. Chi è fuori, come un cittadino di Milano, pur avendo la trattenuta deve presentare una seconda dichiarazione dei redditi con la detrazione di quanto già versato. Ma, spiega Raimondo, «l’Ustat, l’ufficio statistico svizzero, dice che ormai 10% dei lavoratori viene fuori dalla fascia di confine. Come faccio a tenere due trattamenti? Semplifichiamo». D’altronde basta spostarsi in Piemonte perché tutta la regione sia considerata terra di confine. Altra stortura. Per la Ue un lavoratore licenziato in Svizzera ha diritto a prendere il sussidio di disoccupazione in Italia ma a iscriversi nei centri per l’impiego dell’ultimo Paese dove ha lavorato. Quindi quelli elvetici. Tuttavia, aggiunge il sindacalista, «per l’ufficio locale non possono perché non hanno il domicilio». Gli accordi ci sono, l’applicazione è selvaggia, nonostante una condanna della Corte di giustizia europea. Non che il disoccupato se la passi meglio al di qua del confine. Nel 1997 in Italia viene approvata una legge che riconosce al frontaliere licenziato in Svizzera un sussidio pari al «50% della busta paga», ricorda Raimondo, «attraverso un contributo all’Inps». Considerata la differenza tra gli stipendi italiani e quelli elvetici, un bel gruzzoletto. Negli anni l’Inps accumula un fondo speciale che oggi ammonta a 200 milioni di euro. Nel 2012 la doccia fredda: l’ente decide di pagare solo il sussidio ordinario. «Ma nella previdenza c’è una relazione tra prestazione e contribuzione, dobbiamo rispettarla, va riconosciuta la disoccupazione speciale — spiega Raimondo —. E poi: dove sono questi fondi? Esiste un fondo separato?». L’anno scorso il primo dietrofront. A Roma la prossima mossa. luca.zorloni@ilgiorno.net