Un centro studi nell’eredità di Expo: "E l’Italia ora spreca meno cibo"

Il filosofo Salvatore Veca: un istituto per tenere viva la Carta di Milano di LUCA ZORLONI

Il pane, non solo fonte di sostentamento per gli uomini del mondo

Il pane, non solo fonte di sostentamento per gli uomini del mondo

Un anno e un giorno fa il battesimo ufficiale. Nell’Aula magna dell’università Statale di Milano, a tre giorni dal taglio del nastro dell’Esposizione universale 2015, faceva il suo debutto la Carta di Milano. Il documento presentato fin dalla prima idea come «l’eredità immateriale di Expo» allora muoveva i primi passi. «Era l’esito di un lavoro collettivo che, aveva coinvolto moltissimi attori, gli allegati alla Carta erano circa un centinaio», ricorda Salvatore Veca, filosofo, professore all’Istituto universitario di studi superiori di Pavia e papà del documento. Dopo due anni e mezzo di lavoro con il laboratorio Expo di Fondazione Feltrinelli, a fine aprile del 2015 la Carta approdava a una prima bozza, che nei mesi successivi, i sei dell’Esposizione, si sarebbe dovuta evolvere alla sua forma definitiva. «La Carta ha avuto una sua storia nel semestre di Expo, con un’adesione alta di circa 1,6 milioni di firme di visitatori e un centinaio tra Capi di Stato e di governo e nei sei mesi ha ottenuto ulteriori allegati», precisa Veca, fino ad arrivare a fine ottobre nelle mani del segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. E un anno dopo, che fine ha fatto? Veca assicura che il documento vive ed è pronto per un secondo tempo: l’istituto Carta di Milano.

Milano, 29 aprile 2016 - Salvatore Veca, filosofo e padre della Carta di Milano, che cosa è rimasto un anno dopo dell’«eredità immateriale» di Expo 2015?

«I lavori sono in corso. Da allora noi, ossia l’associazione Laboratorio Expo, costituita da Fondazione Feltrinelli, stiamo lavorando a un progetto che si propone di proseguire la ricerca e di svolgere attività di formazione universitaria o professionale in alcuni degli ambiti che sono indicati nella Carta e si connettono agli obiettivi di sviluppo sostenibile votati dall’assemblea generale dell’Onu lo scorso anno. L’idea è di mantenere alcune delle promesse. Dico alcune perché uno dei principali esiti dell’eredità di Expo è lo Human Technopole (il polo di ricerca che sorgerà nell’area dell’evento, ndr), che ha a che vedere con questioni di biomedicina, che impattano su qualità della vita delle persone, e ha qualche connessione con gli studi sulla filiera alimentare. Noi stiamo lavorando a un progetto che cerchi di preservare l’eredità della ricerca e degli impegni indicati in Carta di Milano, che partivano dal diritto al cibo, ma si estendevano a una varietà di dimensioni, antropologica e culturale del cibo, economica e sociale della sostenibilità, fino al problema della crescente urbanizzazione».

I governi si sentono impegnati o la Carta è rimasta piena di belle parole?

«Ognuno ha la sue responsabilità. La Carta si rivolgeva a persone come lei e me, associazioni e a imprese. Tutti e tre i soggetti si rivolgevano i governi per l’adempimento delle politiche. Ora la Carta è stata ed è un documento di cittadinanza globale, non un protocollo intergovernativo tipo Cop 21. Ognuno deve fare quello che può fare dentro il proprio ambito. Noi ci muoviamo nella ricerca e nella formazione, pensiamo a un istituto Carta di Milano, in rete con il sistema universitario lombardo».

Quindi serve un luogo fisico dove si preservi questa eredità?

«Io conto che Milano mantenga le promesse fatte e gli impegni presi. Mi riferisco alla Carta di Milano e uno dei modi per tenerla viva è quello di proseguire nella ricerca, non solo di alto livello universitario ma anche di master più executive, di dottorati di ricerca e di formazione che mira a offrire competenze, per formare operatori della sostenibilità».

Un anno dopo Expo, l’Italia ha cambiato il suo atteggiamento verso cibo e alimentazione?

«Io penso che se guardiamo ad alcune realtà, effetti ce ne sono, Uno dei grandi temi era lo spreco e lo scarto. Oggi l’attenzione è alta, non solo nella teoria ma anche nella pratica di riduzione dello scarto di cibo che resta mangiabile. Penso alle mense scolastiche come alle stesse catene di ristorazione, dove ci sono buone pratiche, o all’impegno dell’Anci, preso dal presidente Fassino. Ci sono effetti sull’educazione alimentare, dopo che a giugno abbiamo presentato la Carta di Milano dei bambini. Quello che deve completare il quadro è l’impegno al proseguire la ricerca e a impegnarci in attività formative e a mettere in rete le competenze nei confronti dei temi».

Un fattore decisivo però sono i tempi: entro quando deve nascere questo istituto?

«Io credo che un must sia riuscire a far decollare le attività di questo istituto dall’anno prossimo. Tenga conto che a fine anno sarà pronta la nuova sede di Fondazione Feltrinelli in Porta Volta, vorrei che là partissero le prime fasi di decollo dell’istituto».

Chi sta lavorando con lei al progetto?

«In parte lo staff e i colleghi di laboratorio Expo. Abbiamo siglato convenzioni con l’Università Statale, con la Bicocca, la Cattolica e Pavia e siamo pronti. Abbiamo colleghi e colleghe di questi atenei e buon numero di ricercatori junior».

Un anno dopo, qual è il ricordo più caro che le resta di Expo?

«Ci sono stati molto momenti belli. Ricordo la presentazione della Carta a tutti i ministri dell’Agricoltura con Loscertales (Vicente, segretario generale del Bie), la Fao, con Lula (Luiz Ignacio, ex presidente del Brasile), che era in un momento più tranquillo per il Brasile rispetto a oggi. O l’incontro con Ban Ki moon, segretario generale dell’Onu. La Carta è stata tradotta in 24 lingue tra cui il coreano, temevo ci fossero errori invece era tutto corretto. Ma per quanto riguarda la percezione soggettiva il ricordo più caro era il clima di civile accoglienza e di attenzione per le persone in quel tourbillon, ricordo questo clima di civiltà dell’accoglienza».

E questo clima è rimasto a Milano?

«Un po’ è rimasto e spero prosegua questa rivoluzione silenziosa, ma per consolidarla bisogna darsi da fare. La mia è una convizione e un invito accorato».