Coi 37 gradi l’importante è tenere la posizione

Vinicio Capossela e la Milano deserta nell’afa di agosto

Vinicio Capossela

Vinicio Capossela

Umidità 400 percento. 37 gradi. Bisogna mantenere la posizione. Se non si è più capaci di prendere una rotta, meglio allora tenere la posizione. Posizione ferma davanti al ventilatore. Fermo anche lui.Svitato il dispositivo che lo fa girare a 180 gradi. Nessuna tentazione a portata di mano. Il mese feriale è arrivato senza pensarci. È un mese che vuole ci si pensi per tempo. È il precipizio dove l’anno si va a buttare, ma anche se ha avvisato arriva sempre come l’ospite, a sorpresa, e non si sa mai dove metterlo. Io mi metto di fronte al ventilatore. Seduto. Il frigo pieno di birra col portello incastrato nel ghiaccio. Dentro due intere confezioni da sei. Imprendibili.

Non ho la forza di correre più dietro alla vita, così l’aspetto qua. Nello scantinato. Treni in partenza a ogni ora, aspettando soltanto che sia troppo tardi per prenderli. A mezzanotte non ne partono più. Allora finalmente mi metto tranquillo. Mi godo le zanzare. Nel pomeriggio abbacinante la portinaia butta l’immondizia con fracasso. Immondizia divisa. Per materiali. È l’unico rumore nel silenzio del deserto. Un frastuono. Qui intorno alla caserma esco solo per i rifornimenti. C’è un’aria di solidarietà tra scampati a qualcosa di grosso. È come un’epidemia, una mobilitazione. Negli esercizi aperti si fa la conta di chi è rimasto, palazzo per palazzo.

Esco finalmente. Mi svago alla spesa. Il supermercato al fresco conserva plotoni di birre e scaffali di vino. Non me ne vado di lì dentro prima che le buste siano così piene da tagliarmi le dita. Allora soltanto mi avvio a tornare alla base. C’è come un’aria di terremoto e io ho un certo timore a frequentare il cucinotto, perché è proprio sotto la vasca da bagno e coi terremoti, si sa, succede sempre così, la tazza ti scappa di sotto, e la vasca ti annega da sopra.Solo gli stranieri se la fanno con la caldana. Non la temono per niente. Al bar vineria di Morocco gli arabi se la passano con le bottiglie di birra da 66 e coi bottiglioni di Barbera da due. Qualcuno se lo viene a prendere da asporto, il beveraggio. Un tipo magro, smunto, appena prima di me, si è preso una 75 di Jack Daniel’s.

Ha pagato e si è avviato fuori per scolarsela a casa. Sul retro della maglietta aveva scritto BONJOUR TRISTESSE, un saluto al barista. Ognuno se la giocava come poteva. Si aveva l’impressione che ci fosse molto più ferro in giro, per via delle serrande abbassate. Nella portineria la puzza di cavolo e di dado s’era fatta ancora più opprimente. Tutte le puzze si liberavano col caldo, come le vecchie flaccide si mettevano in libertà. Di molte sfumature diverse erano, ma tutte ugualmente marce, cariate, offese. Venivano dall’asfalto stesso, pieno di sputi e pisciate di cane, dai bocchettoni delle cantine, sguaiate come gole aperte al loro alito andato a male.

La strada davanti alla caserma era deserta, solo la ronda notturna dei carabinieri la batteva. Per tutte le vie si sfogavano i lavori, si sventravano catrami e piastroni del selciato. Erano i binari quelli che davano più da fare. I binari dei tranvai. Quelli costringevano gli operai a spicconare, ad aprirlo tutto il suolo, a indagarlo tra le aiuole spelacchiate. Non c’era niente di sensato a rimanerci in mezzo, nello scantinato. Mi venivano i nervi a ogni minuto, ma non mollavo. Non avevo la forza di decidermi. Quando si parte bisogna ben partire per il lungo, se no ci si rimane solo invischiati nelle tratte minori, nelle laterali. Mi punivo nella consegna, mi applicavo.

Mi facevo mancare il mondo del tutto, nella speranza che me ne tornasse la voglia, ma più ci restavo, in quel niente, più ci prendevo gusto. Nell’incameramento tutto si faceva troppo lontano. I piedi s’invischiavano e il pavimento s’attaccava e si appiccicava che era una bellezza. Rimanevano le birre, il ventilatore, le scatolette. Bisognava attrezzarsi col caldo. Provvedersi, per evitare di finirci in mezzo dopo, quando tutto era chiuso. La domenica, quando restava solo la stazione e il suo supermercato sotterraneo. Ci si arrivava col tram, coi finestrini abbassati solo a metà, sporgendosi fuori boccheggianti, come da una ghigliottina.Si arrivava così al grande piazzale di cemento, abbagliante.

Là si accasciavano le vite e gli zaini. Più oltre, dentro i cunicoli, si scendeva nel reparto condizionato. La città sotterranea. In verità pochi soltanto stavano davvero partendo... Si restava tra la plastica e i tramezzini della ristorazione continuata. Polli arrosto girevoli, insalate di gomma e besciamella da consumare sui tavolini alti, all’impiedi oppure sullo sgabello colorato, rosso o giallo, nello stile delle finiture dei trasporti sotterranei.​ Coppie di mezz’età, incuranti, circolavano refrigerate... a pranzo fuori alle cinque di pomeriggio. Forse a casa loro si crepava di più, nel condominio, e così se la passavano alla stazione, da romantici, come in una luna di miele. L’inserviente passava lo straccio di continuo e i corpi arrivavano e passavano anche loro sul pavimento. Il supermercato brulicava di clienti come formiche sfiancate dalla techno muzik della radio insopprimibile. Era un piglia piglia tra il cellofan.

Si facevano provviste dentro ai cesti a rotelle e non si parlava. Solo gli ispanici si richiamavano a voce alta... para aquí, para allá... si imbeccavano caricandosi a spalla le casse da ventiquattro di Von Wunster come sacchi di malta. Ma l’antizanzara era finito... rimaneva solo quello chimico, da prendere in flacone. Io però preferisco il puzzo dello zampirone, se è per le zanzare. Finito lo svago si usciva fuori, di nuovo nel cemento nudo della domenica pomeriggio. E poi più sotto, al treno interrato. Sono allo squaglio le carni metropolitane, nei vestiti di lino beige. Di belli non ce n’è. L’alta moda è andata alla villeggiatura. Le mannequin onorano i camminanti solo nella stagione della professione, nei mesi della fiera, quelli dell’accumulo.

E solo le più giovani, le appena arrivate in città che ancora si sbattono sui mezzi pubblici, prima di passare anche loro alle auto invisibili, ai circuiti chiusi. Ma nel mese della feria non ce n’è più neppure di quelle. Rimangono i brutti soltanto, con le loro facce verdi e la pelle grassa, nell’aria viziata del sotterraneo e nel neon. Arrivano soffioni boraciferi dagli anfratti della città, man mano che si guadagna la superficie, scansando il morto in piedi col cartello sandwich HO FAME. Bentornato nel mio quartiere. Puzza come gli altri, anche se è vuoto e in zona di cliniche geriatriche e caserme. Qualche donna sola la s’incontra al supermercato. È molto clandestino. I custodi hanno un’aria come di chi la notte ha le chiavi. Ci si immaginano inviti, appuntamenti, ammucchiate, d’accordo con la ronda. Ma non si sa. Oltre i 37 gradi non si sa niente. L’unica che aveva voglia di fare due chiacchiere era dal fruttivendolo. Alle verdure stavano in postazione nel gabbiotto padre e figlio che con lo stesso stile accondiscendente, a bassa voce, davano sempre ragione al cliente.

Alle signore soprattutto. Gliene raccontavano di ogni tipo ... , palpando l’uva, con l’aria indecisa e la bigiotteria ambulante. Loro, i custodi della frutta, evitavano di contraddirle in modo tutto particolare. Tenevano aperto. Non facevano nemmeno battute allusive. Partecipavano alla conta dei rimasti, e intanto riempivano i sacchetti di pezzi di frutta lucida e insalate ghiacciate. A concedergli di sceglierla loro la roba, lo prendevano come un onore. La sposa era alta e istruita, con i piedi un po’ aperti all’esterno, sospesa nel generico. Chiocciava, informandoci che anche il suo palazzo era vuoto. Uscendo ci ritrovammo a fare lo stesso pezzo di strada, però ero troppo abbattuto per osare... attaccare bottone e nel fresco dell’androne implorare “Mmh, signora, siamo rimasti soli, solo noi in questa epidemia, lei è un miraggio, siamo quasi in intimità, siamo in fondo della stessa via. Potrebbero essere tutti morti, la prego s...”. Così mi tenni il sacchetto e me lo portai dentro.

Anche il bar dell’angolo era aperto. Arcadia si chiamava. Dentro c’erano gli sfaccendati. Bevevano bibite. Stropicciavano il quotidiano sportivo, mentre il televisore sempre acceso trasmetteva i campionati mondiali di sollevamento pesi. Il vecchio tram di ferro, a corse dimezzate e annullate nei giorni festivi, veniva a servire la partenza come su un vassoio fino davanti al portone di casa. Quando proprio non se ne poteva più, il pomeriggio si usciva fuori su quei binari deserti. Per meglio deciderci a prenderlo quel tram mi dicevo “Be’, facciamoci una birra almeno”. E mi affacciavo nell’Arcadia, spiando le sale biliardo, gli infiacchiti e i videogiochi. Poi, con la lattina in mano, me ne andavo a bermela sul cemento di fuori, sulla soglia. Andava sempre a finire così. Mi montavo di euforia per quella mezz’ora e tanto bastava a non partire. Ci vedevo meraviglie... era la birra fresca.

Per i rifornimenti c’era l’Esselunga. Restava aperta anche di sera, nell’oscurità del quartiere oltre i binari deserti. Le sigarette invece erano appannaggio del distributore automatico. Ci si appoggiavano, in riunione, un crocchio di africani, attorno a una Skoda SW che forniva ogni tipo di riparazione idraulica. Di fronte c’era il bar tavola calda. Non aveva l’aria condizionata e dentro stavano tutti sbracati e abboffati di aperitivi a parlare di corna. Quelle degli altri soprattutto. Per iniziare. E poi finivano alle proprie. Erano una tavolata di gente in età da lavoro. Nel pieno del lavoro. La barista era segnata in faccia, coi capelli mossi e la permanente da rifare.

L’uomo più accanito aveva del divorziato. I baffi pure aveva del separato. Su ogni cosa chiedeva un’opinione agli altri. Oltre le corna c’erano sempre di mezzo pure storie di case e di soldi. Decisioni da prendere, sentenze, consigli. Erano affari truci, riassesti di convivenze, bassezze. Ci galleggiavano in mezzo, tra l’asfalto e il rancore. I più vecchi invece restavano dignitosi, senza proporre niente. Sguardi. Assenze. Assentimenti. Bocce. A notte fatta, una volta usciti, era un buio da camminarci dentro. Le luci erano fioche, artificiose, vacue. Adatte alle aiuole spelacchiate, soccombenti alla notte. Camminavamo dentro al buio umido senza dirci niente.

Anche nei bar notturni la musica non cambiava. Sempre corna e vodka sour fatto male. E il barista ci correva dietro per timore che gli portassimo via i bicchieri. Nella notte passavano rari tram sulla circolare, sferragliavano nel caldo riportando a casa i pakistani e tutti i mazzi delle loro rose invendute. Ci volle la precettazione infine. La convocazione obbligatoria per farmi sloggiare. Quando arrivò il momento mi diressi alla stazione che si ergeva enorme e polverosa sopra ai cunicoli del reparto condizionato. Il movimento aveva un’aria terminale, sotto la grande galleria di metallo. Vagoni fermi. Lunghi trenini di carrelli per bagagli passavano suonando, tra gli accampamenti nel grande rimbombo. Folla ce n’era, ma come a fine corsa.

* Da “Non si muore tutte le mattine”