Le parole ferite del disagio di vivere

Il disagio di vivere si fa letteratura. Con pagine ruvide dense di parole ferite. E i racconti vanno avanti tra ricordi e visioni di Antonio Calabrò

Milano, 28 febbraio 2015 - Il disagio di vivere si fa letteratura. Con pagine ruvide dense di parole ferite. E i racconti vanno avanti tra ricordi e visioni. Scrivere è una faticosa ricerca di liberazione. Come in uno dei romanzi migliori letti negli ultimi mesi, “Lo scuru” di Orazio Labbate, opera d’esordio pubblicata da Tunué. È la storia di Raddizzu Buscemi, vecchio e malinconico, in fin di vita in un paesino del West Virginia, incline dunque a rimemorare, partendo dall’immagine della nonna tutta bardata di nero: “Mi ha lasciato negro, a Butera, come la solitudine di un arabo sotto il castello, pronto per essere sacrificato evangelicamente, nella tua dimora, a mangiare biscotti. E quello che mi resta, ora, è raccontare la mia storia. Come sono arrivato fino a qui…”. Sicilia arcaica e maligna, violenta e magica. Scuola di vita scabra: “Il caldo s’alza dai capannoni bruciati e le nuvole diventano nere. Io sono nato sotto quelle nuvole nere; ci mangio come i cani quando divorano le carcasse dei buoi nei rettilinei verso Gela, ci mangio pane e uovo, uovo e ciliegini spaccati in due…”.

Nessuna indulgenza al folklore. Semmai, un’attitudine decisa a fare, di quella profonda provincia di Sicilia segnata dalla memoria della povertà dell’agricoltura feudale e dalle storture industriali delle torri petrolchimiche ridotte a “cattedrali nel deserto” dello sviluppo mancato, una metafora delle illusioni e degli sprechi d’una modernità maligna. La scelta del linguaggio è conseguente: difficile, impervio, mai ruffiano. Al lettore si chiede attenzione, condivisione. E i rinvii sono alti: alle allegorie del “mondo offeso” di Vittorini, al barocco di Stefano D’Arrigo con la sua “Horcynus Orca” e al gotico Usa di McCarty e Faulkner. Buona letteratura, appunto. Cova demoni, d’altronde, la provincia. Come testimonia Enzo Russo in “Il seduttore”, edito da Barion: storia d’un avvocato (origini a Castelbuono, laurea a Palermo) che si ritrova imprigionato da un brillante scrittore romano, Walter. È tutto un gioco, tra autore e personaggio, entrambi a disagio con la loro identità, in cerca della chiave perché la seduzione diventi scrittura e, per il personaggio-prigioniero, perché la finzione si trasformi in libertà. Il disagio è anche quello di Lasteyrie, Lachaume e Valette, tre soldati francesi tornati per pochi giorni a Parigi dall’Algeria in rivolta negli anni Cinquanta, protagonisti di “La licenza” di Daniel Anselme, un successo internazionale di mezzo secolo fa ripubblicato da Guanda. Si cerca di dimenticare, nella frenesia della grande città, tra baldorie ubriache e amori svelti. Ma la guerra non si fa ridurre a una parentesi.

La ferita della violenza, inferta e subita, resta. Eh già, la fatica dell’amarcord. Di cui è testimone intenso Rodolfo Walsh, uno dei maggiori scrittori argentini del Novecento (desaparecido nel 1977, durante la dittatura militare) con i romanzi e i racconti raccolti adesso da La Nuova Frontiera in “Fotografie”. Provincia sudamericana, “personaggi periferici ed esistenze eccentriche”, le ombre di Evita Peron su tutta la vita argentina, le misere avidità. E la crudeltà dei riti di iniziazione, nel collegio di preti descritto nel racconto “Irlandesi dietro un gatto”: “Enright sapeva che l’anima del Gatto era piagata e marchiata per sempre. Cercò di immaginare che razza di uomo sarebbe diventato, cercò di dedurre qualche legge più generale. Ma non ci riuscì, non era abbastanza intelligente e in fin dei conti non erano affari suoi”. Quella ferita, nel disagio adulto, resta aperta.