Amore, illusione, dolore. Le parole per dirlo

Possono essere banali, le cronache delle storie d’amore

Milano, 25 settembre 2016 - POSSONO ESSERE banali, le cronache delle storie d’amore. Un incontro, un’illusione, un inganno, un addio. Felicità. E dolore. Ne sono piene le canzonette. Ma anche la letteratura. L’amore è appunto un racconto. Tutto dipende da come usi le parole per dirlo. Prendiamo le pagine di “Dolore” di Zeruya Shalev, Feltrinelli: dolore che schiaccia, ma riporta alla vita, rende consapevoli. E salva. Nella cornice attuale d’Israele tra guerre e terrorismo, al centro c’è Iris, 45 anni, donna di successo (è tra più innovative direttrici scolastiche di Gerusalemme) e madre di famiglia carica di problemi. Un giorno, per un incrocio di coincidenze, ripiomba in pieno, doppio dolore: quello dei postumi d’un attentato in cui, dieci anni prima, era rimasta gravemente ferita e quello dell’anima, nel ricordo d’un amore adolescenziale bruscamente interrotto. Ed ecco che, con il camice bianco del “medico del dolore”, ricompare Eitan, l’amore d’un tempo, che l’aveva annichilita. Si può ricominciare, ad amare? E dirsi insieme parole così: «Noi siamo una coppia sin dall’inizio del mondo, come la sabbia e il mare, come il lampo e il tuono, la nuvola e la pioggia, la freccia e l’arco, come la voce e l’eco»? Ma anche fare i conti con l’attualità delle responsabilità di storia, lavoro, una figlia, una vita densa di sfide? Ogni scelta, è dolore. E merita risposte amorose. E di dignità. Ancora Gerusalemme, come sfondo de “La comparsa” di Abraham Yehoshua, Einaudi. Noga, la protagonista, è un’arpista, in un’orchestra di Arnheim, in Olanda. E viene richiamata in Israele per complicati motivi familiari.

NIENTE musica, per tre mesi. E il ripiombare nell’obbligo di fare i conti con la realtà: la vecchia madre, le radici ebraiche, la femminilità, un marito da cui ha divorziato perché non voleva figli. Dolori dell’abbandono. Insidie dei ricordi. Amori forse mai finiti. E un ritorno: alla musica. Suonando “La mer” di quel genio inquieto e amoroso di Debussy. Si dice nello stesso modo, in francese, “il mare” e “la madre”. «Io ti suonerò», sussurra Noga alla madre, prima di ripartire in tournée con la sua arpa. È una salvezza, la musica. O una dannazione. Si ritrovano, in un bar milanese, entrambi amanti del jazz, Alessio e Martina, protagonisti di “Un solo paradiso” di Giorgio Fontana, Sellerio. Si scoprono. E s’innamorano. Lui rinuncia all’abitudine del “dolceamaro contentarsi”, lei cerca una rivincita rispetto a una vita di fragilità e abbandoni. Ma è totale asimmetria affettiva. Destinata a finire male. Martina scompare. Alessio s’abbandona a una disperazione che lo porta all’annullamento. Sullo sfondo, una Milano inquieta e infelice, di periferie prive di speranza, di bar densi di malumori. “Gli occhi della morte”, avrebbe detto Pavese. E in quella storia d’illusione e morte, si sente forte il respiro d’una buona dimensione di letteratura. Eccola, ancora una volta, l’illusione. Che, nelle pagine de “Il matrimonio di piacere” di Tahar Ben Jelloun, per La Nave di Teseo, porta Amir, ricco mercante di Fes, in Marocco, a decidere di far diventare seconda moglie, vera, una bellissima donna di Dakar, Nabou, amante amatissima dei suoi viaggi d’affari. Ma sono orgogliosi e bianchi, i marocchini di Fes. Nera, invece, Nabou, come le schiave. E durissima e razzista, la reazione della prima moglie di Amir, dei familiari, degli altri mercanti. Si può vivere, una grande storia d’amore, contro tutto e tutti, nella tempesta di migrazioni e mutamenti sociali? Probabilmente sì. A patto di saper convivere anche con una tremenda condizione del dolore.