I Decibel ospiti nella redazione de Il Giorno: "Il rock è un'élite dell'anima..."

Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio al forum

I Decibel con il direttore Sandro Neri nella redazione de Il Giorno

I Decibel con il direttore Sandro Neri nella redazione de Il Giorno

Milano, 21 febbraio 2018 -  «La musica porta in sé la sua ricompensa», assicurano i Decibel citando David Byrne. E ieri, nella redazione de “Il Giorno”, Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio hanno focalizzato il pensiero attorno al loro ultimo album “L’Anticristo”, nell’attesa di presentarlo domani (alle 18) alla Feltrinelli di Piazza Piemonte.

Chi è oggi l’Anticristo?

Muzio: «Un club ristretto di potentissimi della terra che si ritrovano per stabilire le sorti del mondo; dove scoppieranno le nuove guerre, chi diventerà presidente, dove ci saranno bolle finanziarie e perfino quale musica dovremo ascoltare, col proposito di abbassare il livello di consapevolezza delle persone. Il messaggio, quindi, è quello di mettere più attenzione in quello che si pensa e si fa perché spesso la realtà è soggetta a manipolazioni».

Ruggeri: «Nella musica questo è un dato quasi oggettivo; negli Anni ’60-’70 il peso dei musicisti sulle coscienze della gente era diverso. La guerra in Vietnam fu fermata dai cantanti. Poi, secondo me, questi signori deciso che non potevano farsi dire da Bob Dylan e da John Lennon cosa fare e, guarda caso, dagli anni ’80 il peso specifico dei musicisti è calato. Forse il canto del cigno l’ha dato il Live Aid».

Quindi cos’è accaduto?

Capeccia: «La musica è diventata sottofondo, un break tra una pubblicità e l’altra, un prodotto di larghissimo consumo con artisti che non durano più anni, ma solo mesi».

Ruggeri: «Tutto con suoni molto omologati, in modo che suoni meglio la pubblicità. Un tempo ascoltavi un album anche per una settimana, oggi nello stesso tempo un ragazzino “consuma” anche 200-300 canzoni».

Anche il rap è melassa indistinta?

Ruggeri: «Il rock è un’elìte dell’anima, il rap meno. Anni fa ho dichiarato, sbagliando, che la musica del futuro poteva essere il rap, che però, al momento, è solo una musica dei ragazzini, che lo preferiscono a Cristina D’Avena. Personaggi di valore, però, ce ne sono».

Ruggeri, la sua cattedra di musica popolare al Conservatorio di Milano può pesare in questo contesto.

Ruggeri: «Credo costituisca un bellissimo segnale. Nel Dopoguerra i giovani non sono più degli adulti in fieri, ma diventano classe sociale con una musica, il rock’n’roll e la rivoluzione sessuale. Il rock è la musica classica del Secondo Novecento. Con tutto il rispetto, credo che ci sia più creatività nei Beatles che in Petrassi o Dallapiccola».

Che impressione vi ha fatto tornare in gara a Sanremo 38 anni dopo “Contessa”?

Capeccia: «Il Festival ci è sembrato “una gabbia di matti” così come ce la ricordavamo, ma con la sua pressione mediatica è un veicolo eccellente per promuovere il nuovo lavoro. In una sola settimana abbiamo concentrato mesi di promozione».

Ruggeri: «Abbiamo salvato pure vite umane perché Muzio, il Sassaroli della situazione, oltre a suonare fa il primario e gli abbiamo lasciato il tempo per svolgere pure l’altra sua attività. Quanto a carica emotiva, non cambio il nostro incontro sul palco con Midge Ure di quest’anno con la mia vittoria di “Mistero” nel ’93».

In 14 mesi siete passati dai banchi del liceo Berchet, su cui avete annunciato la reunion, a Sanremo. In mezzo ci sono stati, però, 40 concerti che hanno definito il suono di oggi.

Capeccia: «Effettivamente all’inizio volevamo fare 50 copie di vinili gialli da regalare agli amici, e il live ci ha dato una grandissima personalità e una potenza di suono che è cresciuta e s’è consolidata».

Il futuro è nei talent?

Ruggeri: «Nei talent scegli chi canta meglio, poi guardi quelli che sono stati lì 30-40 anni e ti accorgi che Gaber, Jannacci, Conte sarebbero stati tutti eliminati. Un tempo se sbagliavi un disco sarebbe arrivato il successivo a darti un’altra possibilità. Oggi ti confronti col mercato e se il primo singolo non piace a Linus rischi di dover cambiare mestiere».