Lidia Macchi, il mantra di Binda: "Sono innocente, serve pazienza"

In cella con uno straniero, legge Kerouac e guarda i servizi tv sul delitto di GABRIELE MORONI

Lidia Macchi (Newpress)

Lidia Macchi (Newpress)

Varese, 24 gennaio 2016 - «Devo avere pazienza. Lo so. Devo avere tanta pazienza». Sereno, a più di una settimana dall’arresto. L’atteggiamento di chi sente di non avere commesso nulla. La fiducia dell’innocente. «La violenza - dice con voce sottile - non mi appartiene. Non sarei mai stato capace di fare del male a Lidia. Né a lei né a nessuno». Il trascorrere di giornate sempre uguali non pare scalfire la sicurezza di Stefano Binda. L’uomo detenuto per l’omicidio di Lidia Macchi ha un suo leitmotiv, una sorta di mantra: «Non ho fatto niente. La verità deve venire a galla». Solo con i difensori pare cedere a un momento di sconforto: «Avvocato, almeno lei mi crede? Non sono stato io».

Al suo arrivo nel carcere varesino dei Miogni, a differenza di molti detenuti al loro ingresso, Binda non ha chiesto di incontrare don Giuseppe Pellegatta, il cappellano. Non ha chiesto di parlare con nessuno. Non ha ancora ricevuto la visita della madre Maria e della sorella Patrizia, che abitano con lui nella villetta bifamiliare a Brebbia dove, la notte del 15 gennaio, è stato prelevato dalla squadra mobile. Stefano Binda ha invece domandato, fra le prime cose, come se ne sentisse la necessità, se il carcere disponeva di una biblioteca. Oggi un libro di Kerouac è il compagno delle sue giornate, insieme con il detenuto extracomunitario con cui divide la cella. C’è anche una televisore. Binda non lo sfugge, per quanto sia consapevole che facendo zapping da un programma all’altro può imbattersi nella sua immagine. Si mostra tranquillo anche in questo: «L’ondata mediatica su di me non mi colpisce. Me l’aspettavo».

I libri, le sigarette, compagni di una vita dove, in quarantotto anni, non è mai entrato il lavoro. L’altra compagna, sinistra, è stata la droga. È un enigma dove Binda trovasse il denaro per procurarsela, visto che non dispone di redditi personali, la madre vive della pensione, la sorella ha uno stipendio da impiegata. Stefano Binda l’ha incontrata per la prima volta quando aveva diciassette anni. Dal carcere, fa arrivare anche su questo la sua verità: «Sono sei anni, che non faccio uso di stupefacenti. È una storia chiusa», dichiara. Nel 2009 l’ultimo episodio che si conosca. Un controllo degli agenti del commissariato di Gallarate, a Gorla Maggiore. La località Macchina Bruciata si chiama così per la carcassa di un automobile rimasta lì per anni. Il rottame rugginoso è sparito, il nome è rimasto a indicare un luogo di spaccio di eroina e cocaina, dove non circolano soltanto pusher, ma anche bande organizzate di spacciatori. Gli agenti controllano Binda, che si qualifica come ricercatore universitario. Non viene denunciato, è conosciuto come consumatore abituale.

Non ci sarà istanza di scarcerazione. Non ci sarà ricorso al Tribunale del Riesame (i termini scadono domani). I difensori, Sergio Martelli e Roberto Pasella, stanno valutando invece la possibilità di un ricorso alla Cassazione. Intanto trascorrono lunghe ore a studiare le migliaia di pagine dell’inchiesta sull’omicidio di Lidia Macchi.