Omicidio Macchi, mi aiutano e mi fanno il caffè: la vita da carcerato di Binda

Studia gli atti dell’inchiesta: «Sono sicuro di uscire» di GABRIELE MORONI

Stefano Binda

Stefano Binda

Varese, 29 gennaio 2016 - Ha un messaggio, qualcosa da dire ai genitori di Lidia Macchi? Per la prima volta Stefano Binda si mostra sorpreso. Pare irrigidirsi. Non risponde alla domanda del consigliere regionale in visita nel carcere varesino dei Miogni. È l’unico momento di silenzio assoluto. L’uomo arrestato con l’accusa di essere l’assassino di Lidia Macchi è detenuto nella cella 14, piano terra, sezione dei nuovi arrivi. Indossa qualcosa di grigio. Cella piccola, spartana, un vecchio televisore, una turca. Binda la divide con un detenuto romeno.

È seduto sul letto dove sono sparsi gli atti oggetto di attento studio da parte dell’uomo di Brebbia, 48 anni, laureato in filosofia, compagno di Lidia Macchi al liceo classico di Varese e nella militanza in Comunione e Liberazione. Fra le carte, un libro di Kerouac, la lettura alternativa delle sue giornate. Binda si alza e stringe la mano al visitatore inatteso. L’immagine esterna è quella di un uomo sereno, che ha trovato un equilibrio nella vita carceraria. "Qui dentro ho avuto un’ottima accoglienza. Ero molto preoccupato. Quella del carcere era un’esperienza che non avevo mai fatto e non pensavo di fare". In cella non c’è cucina e neppure un fornelletto. L’uomo di Brebbia pare avere superato anche questo handicap: "Gli altri mi aiutano. Mi fanno il caffè". Il politico gli chiede come trascorra le sue giornate nell’uniformità della vita carceraria. "Ieri sono stato in biblioteca. Sto iniziando ad avvicinarmi agli altri negli spazi di socialità". Accenna all’inchiesta che lo ha travolto quando, senza smarrire la sua calma, parla del prelievo salivare per il dna. È accaduto nella mattinata del 19 gennaio. Al suo quinto giorno di detenzione, è stato interrogato dal gip di Varese, Anna Giorgetti, e poco dopo dal sostituto procuratore generale Carmen Manfredda. Con entrambe la scelta è stata quella del silenzio. È il momento del congedo. Stefano Binda lo fa rinnovando sia la stretta di mano sia quello per lui è un mantra: «Sono innocente e sono sicuro di uscire. Spero che tutto si chiarisca al più presto».

L’inchiesta vive, intanto, l’attesa di uno snodo importante. Il pg Manfredda ha chiesto al gip di «cristallizzare» alcune testimonianze con la formula dell’incidente probatorio: Patrizia Bianchi, che ha determinato gli ultimi, clamorosi sviluppi delle indagini, a cominciare dalla identificazione della grafia di Binda con quella della prosa anonima recapitata alla famiglia Macchi il 9 gennaio del 1987, giorno dei funerali di Lidia; don Giuseppe Sotgiu, oggi prete a Torino, all’epoca amico del cuore dell’arrestato; la sorella di Lidia, Stefania; Paola Bonari, l’amica e compagna di appartamento a Milano che Lidia andò a trovare all’ospedale di Cittiglio, nel pomeriggio del 5 gennaio dell’87, poche ore prima di essere uccisa. I difensori di Binda, Sergio Martelli e Roberto Pasella, si sono opposti alla richiesta. Don Sotgiu è stato intervistato dal quotidiano torinese «CronacaQui». "Non credo assolutamente - ha dichiarato - a tutta questa storia, neanche un po’. Conosco Stefano da quando avevo dieci anni, hanno detto di tutto e di più su questo ragazzo e adesso stanno inventando un mostro. La sua vita, forse, non è delle più lineari, ma questo non lo fa diventare un omicida".