Milano, 13 luglio 2012 - Psicoanalista medico e quattro volte padre. Luigi Ballerini è facilitato nel mestiere dello scrittore, sa cosa e come dirlo ai ragazzi. Usa i toni giusti. Non a caso, ha contribuito a far vincere quest'anno alla "Extra" dell'editrice Giunti (per la quale scrive) il Premio Andersen (sapete vero cos'è? E' l'Oscar della letteratura per l'infanzia!) come Miglior collana di Narrativa, premiata non solo per le tematiche ma anche per il linguaggio usato.

Glielo diciamo e lui, che anche al telefono riesce a comunicare la cordialità e la simpatia di cui tutti nell'ambiente parlano, ammette candidamente. Anzi, aggiunge che "Sono davvero privilegiato come scrittore per ragazzi perché non solo ascolto oro, come padre e come medico, ma anche gli adulti, i genitori che mi parlano di loro. E siccome mi piace narrare la realtà, portare sulla carta bambini e ragazzi che sono credibili e verosimili, alla realtà mi ispiro".

Stando alla sua Postfazione, "Non chiamarmi Cina", ambientato a Milano, è il libro forse più reale tra quelli che ha scritto.

"Sì. Quelle dei due protagonisti, Rossana e Toto, sono due storie vere".

Incontrare avendo 'sparso un po' in giro la voce' di voler scrivere un altro libro, come si legge sempre nella Postfazione?

"Fino a un po' di tempo fa, mi angosciavo davanti al 'momento bianco', quello che precede l'inizio di un nuovo libro. E il paradosso era che più mi sforzavo, meno avevo idee. Poi ho capito che le storie non s'inventano ma s'incontrano tenendo occhi e orecchie aperte, parlando con gli amici. I due protagonisti, infatti, mi sono stati presentati da loro. Nel libro le loro singole vite sono esattamente quelle che mi hanno raccontato in separata sede. Il resto è finzione narrativa".

Il 'resto' sarebbe la loro storia d'amore?

"E' stato un caso e l'ispirazione è arrivata dalla sorpresa di ciò che mi hanno raccontato i ragazzi. Innanzi tutto, la scoperta di un lato dell'integrazione che non conoscevo, perché davvero se Rossana portasse a casa un fidanzatino italiano farebbe un torto ai genitori nati e cresciuti in Cina. Poi, mi ha sorpreso il vederli così diversi nella quotidianità ma allo stesso tempo con le stesse aspettative e gli stessi desideri. Ho voluto sottolineare questo: quanto i ragazzi sono portatori di desideri, gli stessi desideri".

Non voleva quindi essere un libro sull'integrazione, in particolare quella un po' turbolenta, nel recente passato, tra milanesi e cinesi.

"No, non c'è stata premeditazione. Anche se, stando a quello che mi dicono i lettori, l'idea è piaciuta molto".

Rossana è nata in Italia è, per così dire, una "straniera di seconda generazione". Quali sono le difficoltà di questi ragazzi?

"Spesso sono in bilico, sospesi, tra una cultura e l'altra. Molti, come Rossana, rischiano di non cogliere la loro ricchezza, rifiutando, anche se solo in parte, la loro origine. Ad esempio, Rossana non vuole imparare il mandarino scritto. Ho tentato di spiegarle a quanto stava rinunciando".

Come aiutarli?

"Credo che la scuola abbia un'opportunità incredibile".

Cos'altro piace ai lettori di "Non chiamarmi Cina"?

"Che i protagonisti sono ragazzi normali, non sono tormentati e neppure degli eroi. Sono normali, stanno bene, vanno a scuola, hanno famiglie normali (e ce ne sono, non è vero che tutti i genitori sono disattenti) che capiscono i loro sogni. E poiché normali, a questa età hanno i loro problemi".

E' molto forte anche il tema 'dell'attesa' nel libro: Rossana che prima si arrabbia perché Toto partirà per la Svizzera, lasciandola sola, poi accetta con serenità. Pura funzione narrativa oppure ha un significato?

"Ha un significato. Il finale aperto lascia proprio spazio alla dimensione dell'attesa. Tutto il romanzo è in fondo l'invito a non aver fretta, a non accelerare i tempi, a prendersi del tempo per chiarirsi le idee, restando lo stesso insieme, con rispetto".

Sono pagine che invitano alla pazienza, cosa che manca sempre ai ragazzi, non solo a quelli di oggi.

"Mi piace lo abbia colto!".
 

di Teresa Bettarello