di Luca Zorloni

Milano, 2 settembre 2013 - «No food for fuel», niente cibo come carburante. Ovvero: non mettete mais nei vostri motori. È questo lo slogan di una petizione lanciata sul sito Change.org dalle organizzazioni non governative (ong) Oxfam e Action Aid per rivedere al ribasso la politica europea di sviluppo del biocarburante. Attraverso il documento, indirizzato in prima battuta al ministro dell'Ambiente Andrea Orlando e poi al collega Flavio Zanonato (Sviluppo economico), agli europarlamentari Niccolò Rinaldi (Alde), Lorenzo Fontana (Efd), Giovanni La Via (Ppe) e David-Maria Sassoli (S&D), le due associazioni chiedono al governo Letta una marcia indietro dell'Italia dal mercato dei gasoli verdi e un'azione incisiva in Europa (siamo tra i maggiori consumatori del continente) affinché diventi una politica comunitaria.

Perché un ripensamento sulle benzine green, che promettono di abbattere le emissioni inquinanti? Oxfam e Action Aid puntano il dito contro i metodi di produzione e l'impatto che l'approvvigionamento di materie prime - cereali, barbabietola e canna da zucchero, semi oleosi - ha sulle economie dei paesi in via di sviluppo, diventati il granaio mondiale dei biocarburanti. Secondo dati dell'International Land Coalition (citati da Oxfam-Action Aid), tra il 2000 ed il 2010, su un totale di 70,9 milioni di ettari di terreni già acquisiti o in via di acquisizione (Africa sub-sahariana in primis), circa 37,2 milioni erano destinati alle coltivazioni per biocarburanti. «Solo nel 2008 - riferiscono le ong - , i frutti della terra utilizzati per produrre biocarburanti avrebbero potuto sfamare 127 milioni di persone, riducendo la fame nel mondo di quasi il 15%». «L'impatto di questi carburanti - aggiungono - , tutt'altro che "bio", è ben altro: sfruttamento e accaparramento di terra e acqua, distruzione di foreste, perdita di biodiversità e, in alcuni casi, non vi è nemmeno alcun risparmio di emissioni di anidride carbonica rispetto al petrolio. E, soprattutto, malnutrizione e fame».

L'Europa nel 2011, aggiunge Oxfam, ha destinato sei miliardi di euro alle benzine verdi. Disinvestire, l'imperativo delle ong, per ridurre al 5% il contributo del biocarburante al trasporto sostenibile, contro il doppio della percentuale auspicato dai governi dell'Eurozona. L'Italia è un attore di primo piano. Secondo il database Land Matrix, che monitora le acquisizioni di terra, sono 21 gli investimenti fondiari del nostro paese all'estero, tutti, tranne uno, in Africa, per oltre 655mila ettari. Diciotto di questi progetti hanno destinazione agricola. Ma a scorrere i nomi delle aziende, si riconoscono holding delle energie verdi: i campi, quindi, forniscono la materia prima per biocarburanti e affini.

Federica Corsi, policy advisor di Oxfam Action Aid, perché questa battaglia contro il biofuel?
«La mobilitazione è in corso anche in altre nazioni. "No food for fuel": i biocarburanti si basano su una materia prima alimentare, aumentano il problema della fame e dell'inquinamento. In questi mesi è in discussione al Parlamento europeo la direttiva sui biocarburanti, da ottobre dello scorso anno la società civile e le associazioni si stanno facendo sentire per mettere un limite al consumo di biofuel. Il target stabilito ora a livello europeo è di raggiungere il 10% di energia rinnovabile nel settore dei trasporti, noi chiediamo che non più del 5% di questo target sia raggiunto con biocarburanti che entrano in diretta competizione con il cibo. E’ necessario limitare per poi gradualmente azzerare il consumo di quei biocarburanti prodotti da materia prima alimentare e che sfruttano terra e acqua».

Quali sono i dati che avete raccolto?
«Innanzitutto le comunità pagano alti costi sociali, non ricevendo adeguata tutela dei loro diritti sulla terra: spesso gli investimenti in agroenergie avvengono in paesi poveri con una debole governance fondiaria. Sono fenomeni difficili da tracciare, perché c'è poca trasparenza. Secondo il database Land Matrix, tra il 2000 e il 2013 a livello globale 33 milioni di ettari (ovvero un’area più grande dell’Italia) è stata oggetto di grandi acquisizioni di terra da parte di investitori stranieri. Gran parte di queste acquisizioni riguardano coltivazioni agroenergetiche, come il mais, cereali, canna da zucchero per bioetanolo, olio di palma per il biodiesel, jatropha, cardo o canna comune. Ci sono quindi sia colture alimentari vere e proprie, sia altre che fanno diretta concorrenza con il cibo e prevedono consumo di terra e di acqua».

Qual è il ruolo dell'Italia in questo settore?
«Attualmente nel nostro paese il consumo di biocarburante è intorno al 4,5%. L'Italia è un attore di primo piano, che può cambiare questa politica in Europa. Al momento però la posizione del governo è di tutelare gli investimenti».

Uno scenario simile di corsa alla terra per le agroenergie sta prendendo forma anche in Italia. Che opinioni vi siete fatti?
«Ci sono analogie, varia la dimensione del fenomeno. L'Italia non ha abbastanza terre arabili per le agroenergie, quindi c'è una corsa alla terra che va a danno delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo».

Quali sono le conseguenze della situazione attuale?
«Non si rispettano i diritti delle popolazioni, che si vedono espropriare la terra con contratti di vendita o di affitto a 99 anni, senza il permesso di partecipare o di comprendere cosa stia succedendo. Inoltre gli investimenti in agroenergie sono molto meccanizzati, quindi non richiedono lavoro umano. Senza terra, sono costretti a procurarsi cibo da altre zone con un aumento dei prezzi alimentari. Il dato dello scandalo è che secondo la Fao una persona su otto soffre la fame e noi usiamo il cibo per produrre biodiesel».

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