Delitto di Cirimido, il pentimento dell'omicida: "Io, invidiosa e bugiarda. Ho ucciso mia sorella perché era migliore di me"

Cirimido, cinque anni dopo il pentimento dell’omicida. "Dopo averla ammazzata sono tornata a casa e mi sono messa a letto. Era come se sotto quel telo ci fossi anche io" di Paola Pioppi

Il corpo di Mariarosa Albertani (sotto) fu ritrovato nel retro della casa. Sopra, la sorella Stefani

Il corpo di Mariarosa Albertani (sotto) fu ritrovato nel retro della casa. Sopra, la sorella Stefani

Crimido (Como), 24 settembre 2014 - Era il 13 maggio 2009 quando Stefania Albertani uccise sua sorella maggiore Maria Rosa, alle spalle della casa di via Toti a Cirimido, in provincia di Como, dove erano cresciute. Il suo corpo, carbonizzato dal fuoco che le aveva appiccato Stefania dopo averla strangolata, fu scoperto solo a luglio, durante una perquisizione dei carabinieri. Per settimane, i genitori delle due donne erano andati a dare da mangiare al cane, lasciato temporaneamente nella casa messa in vendita, senza mi accorgersi del cadavere di quella figlia di 38 anni, creduta in viaggio a causa di false lettere scritte da Stefania. Fu l’inizio di un’indagine che portò, tempo dopo, all’iscrizione sul registro degli indagati di Stefania, sospettata di quel delitto, ma lasciata a vivere con i genitori in attesa di chiarire il quadro della sue effettiva colpevolezza. Una convivenza di crescente tensione, sempre più carica delle bugie che Stefania inventava per coprire una vita che ogni giorno perdeva pezzi di razionalità. Fino al 7 ottobre, quando la giovane aveva tentato di uccidere anche i suoi genitori, salvati dall’intervento dei carabinieri che stavano intercettando l’ennesima perdita di controllo della donna. Due anni dopo il gip di Como l’ha condannata a 20 anni di carcere, preceduti da 3 di ospedale psichiatrico giudiziario, dove si trova attualmente. La sentenza fece scalpore perché la pena venne attenuata grazie alla dimostrazione di anomalie in alcune aree del cervello che determinano il comportamento della donna.

 

Cirimido, 24 settembre 2014 - «Mi aveva puntato il dito contro. Mi stava dicendo che il mio era un mondo disconnesso, aveva minacciato di parlare con mio padre, se non lo avessi fatto io. Stava cercando di aiutarmi, mi stava dicendo che non stavo bene, ma per farlo aveva smontato il mio castello di bugie. Le ho messo le mani al collo. Volevo solo che tacesse, ma ho perso il controllo ed è finita a terra». Cinque anni dopo l’omicidio di sua sorella, con la lucidità recuperata grazie a due anni di psicoterapia all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, Stefania Albertani, oggi trentenne, racconta il percorso di sofferenza e solitudine che l’ha condotta in carcere, dopo aver ucciso la sorella maggiore e cercato di fare altrettanto con i genitori, salvati dall’intervento dei carabinieri. Una confessione ampia e dettagliata, davanti alle telecamere della trasmissione «Storie Maledette», condotta da Franca Leosini.  Un caso, il suo, nel quale per la prima volta le neuroscienze sono entrate in modo importante in un processo. Disturbo dissociativo della personalità: quello che gli studi accolti dal giudice hanno rivelato, è una malformazione neurologica che giustificherebbe il comportamento aggressivo e privo di controllo sugli impulsi. Condizione sulla quale, tuttavia, i fattori ambientali possono intervenire e ridimensionare, come appunto sta facendo il lavoro psicoterapico. Visibilmente dimagrita, ormai consapevole del disvalore di tutto ciò che ha fatto, Stefania Albertani ha ritrovato la strada che le permette, oggi, di affrontare con grandi risultati il percorso di cura. Non solo: sta frequentando la Facoltà di Giurisprudenza, lavora nel bar interno alla struttura detentiva e fa molto sport. Soprattutto, ha recuperato un rapporto con i genitori: «Non mi hanno abbandonata – dice – ma hanno imparato a conoscermi, e io a conoscere loro». Nei suoi racconti, rimangono ancora buchi di memoria, prodotti da quel disturbo associativo a causa del quale «c’erano due Stefanie: era come se la mano destra non sapesse cosa faceva la sinistra, ma a un certo punto entrambe si sono annientate». È accaduto dopo aver ucciso la sorella, colpevole di avere una sua vita: «Quello che non avevo mai avuto io – dice Stefania –: non lo trovavo giusto. Lei viveva, io no: era colpevole». Stefania viveva schiacciata dalla solitudine, dai complessi per il suo corpo, arrivato a pesare 130 chili, dai fallimenti esistenziali e professionali: non ultimo, quello dell’impesa edile del padre, che le venne affidata a soli 20 anni, fatta naufragare nel giro di pochi mesi. Un’esistenza alla quale Stefania riusciva a sopravvivere solo costruendo un castello di bugie, che cresceva e si alimentava da sè. Bugie per coprire i debiti, per nascondere gli sbagli, per depistare sulla scomparsa della sorella. Con lucidità Stefania inventa figure di professionisti mediatori nella vendita della casa di famiglia, per impedire che una parte di quel denaro andasse alla sorella maggiore. Ma, poco alla volta, Maria Rosa se ne accorge, e cerca di parlarle. «Dopo averla uccisa – ricorda Stefania – sono tornata a casa e mi sono messa a letto. Mi sentivo vuota. Era come se sotto quel telo fossi rimasta anch’io». Piange mentre lo racconta, ora che ha capito: «Non le chiederò mai scusa abbastanza – dice -. Lo faccio ogni volta che lo psicologo mi porta da lei al cimitero, e vedo la sua foto. Se ci fosse stata la Stefania di adesso, lei sarebbe ancora viva, ci sarebbe ancora l’impresa e molte cose non sarebbero accadute. Perché la Stefania di adesso sa di poter scegliere. Invece, in quel momento, ho sentito che Maria Rosa voleva distruggere il mio castello di bugie, portarmi via la vita. E io ho preso la sua». Da giorni le stava somministrando massicciamente psicofarmaci, girava in stato confusionale: «Quando la vedevo in quelle condizioni, pensavo che stava vivendo quello che provavo io da tutta la vita». Poi avviene il ritrovamento del cadavere, tre mesi dopo, i sospetti di tutti si stringono su di lei, persino da parte dei genitori. La tensione sale a livelli ingovernabili: «I carabinieri non interrogavano mai me, ma sempre loro. Il mio problema stavano diventando loro». Fino al giorno in cui li aggredisce, ma a quel punto i carabinieri l’hanno fermata.