Erba, violenza sessuale su 15enne: carabiniere condannato a due anni

Adescata in chat e convinta a presentari bendata in un bosco. Poi la fuga del 51enne milanese

In Tribunale

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Erba (Como), 17 novembre 2017 - Per avvicinarla e convincerla a incontrasi si era spacciato per un diciannovenne, ottenendo così la fiducia di una ragazzina di soli 15 anni. Ma dietro quella identità confezionata appositamente per ottenere l’appuntamento in una zona boschiva dell’erbese, c’era R.B., 51 anni di Mediglia, nel Milanese, appuntato dei carabinieri all’epoca in servizio a Milano. Finito agli arresti domiciliari a giugno, è stato ora condannato a 2 anni e 8 mesi per violenza sessuale, al termine del processo con rito abbreviato che si è svolto davanti al gup di Como Maria Luisa Lo Gatto.

L’accusa per lui era di violenza sessuale per induzione, vale a dire agita con l’inganno, che consisteva appunto in quell’essersi spacciato per una persona diversa da quello che era. Per arrivare a identificarlo, i carabinieri di Erba avevano impiegato oltre un anno, partendo dalla denuncia della ragazza e dal profilo Facebook che l’uomo aveva aperto sotto falso nome. Un’identità che mostrava foto di un ragazzo giovane e di bell’aspetto, con fisico atletico e buone intenzioni. Quel giorno si erano incontrati in un bosco della zona di Albavilla: lei lo aspettava come le aveva chiesto lui, che era giunto di spalle. Aveva poi bendato la ragazza, che non si era opposta. 

Ma quando la quindicenne era riuscita a intravedere la mano dell’uomo, pochi attimi dopo l’inizio dell’approccio, si era accorta che non apparteneva a un ragazzo, ma a un uomo adulto, e aveva iniziato a gridare. Lui non era andato oltre: si era subito bloccato e allontanato velocemente: solo a quel punto la quindicenne aveva tolto la benda, riuscendo a vederlo di spalle mentre scappava. Il giorno dopo, accompagnata dai genitori, la ragazza si era presentata ai carabinieri di Erba, che avevano iniziato un faticoso lavoro per risalire alla vera identità che stava dietro a quel profilo. Tempi resi ancora più lunghi dal fatto che gli amministratori di Facebook avevano impiegato mesi a dare le risposte necessarie. A quel punto erano state fatte altre verifiche, attraverso lo stesso telefono dell’indagato e l’uso della app, così come sulle localizzazioni nel giorno dei fatti: risultanze che sono arrivate ad accusare R.B., a quel punto raggiunto da ordinanza di custodia cautelare. Davanti al giudice, i suoi avvocati avevano chiesto che venisse riconosciuto il solo tentativo, e non il reato consumato, ma il giudice è stato di diverso avviso.