di Paola Pioppi

Como, 23 aprile 2012 - Per dieci anni ha lottato contro un carcinoma al seno, sperando ogni giorno di potercela fare, guadando avanti e cercando conforto nel suo medico di fiducia. Finché la malattia l’ha uccisa, curata con pomate omeopatiche rivelatesi del tutto inadeguate, anziché con metodi tradizionali e più aggressivi. Secondo la Procura di Como, che in questi giorni ha concluso gli accertamenti su quel tragico decorso, la responsabilità di quanto accaduto fu del neurologo che aveva in cura la donna, Pancrazio Pala, professionista sessantunenne con studio a Como.

Sarebbe stato lui, secondo le accuse, a tenere in carico la paziente anche quando iniziò a manifestare una patologia che esulava dalla sua competenza, sconsigliandole di rivolgersi a specialisti e di sottoporsi a esami che avrebbero approfondito la natura dei suoi disturbi. Maria Nucera, ex bancaria comasca di 55 anni, morì nel 2010 per quella neoplasia arrivata fino a una condizione non più rimediabile. Poche settimane dopo, la figlia presentò un esposto in Procura, chiedendo di capire perché la madre, che si fidava ciecamente di quel medico che già la stava curando per altri problemi, non si era mai rivolta a nessun altro.

Ora il sostituto procuratore Massimo Astori, ha concluso le indagini concordando con quanto sostenuto dai familiari della Nucera, e accusa il neurologo di omicidio colposo. L’ipotesi è di aver sottovalutato la malattia, e sconsigliato alla paziente di farsi visitare da oncologi o clinici, caldeggiando invece l’utilizzo di pomate cicatrizzanti giapponesi a base di grasso animale (in particolare la Bayhu, con componenti derivate dai cavalli), affiancate a massaggi con grasso di maiale, e psicofarmaci.

Il tutto sarebbe avvenuto approfittando della fiducia cieca maturata dalla paziente nei suoi confronti, in oltre vent’anni di cura, che secondo il magistrato sarebbe addirittura sfociata in una forma di sudditanza verso il professionista. Da parte sua il medico, in una dettagliata memoria difensiva, fornisce una versione molto diversa, sostenendo che la donna, affetta da patofobia — cioè il terrore di avere malattie — rifiutasse sia il confronto con i medici che di sottoporsi ad esami clinici, per il timore di diagnosi nefaste.