Terrore antico

"L’Italia è una terra ballerina, si dice, ed è un modo di esorcizzare la tragedia, e la sua memoria. Non siamo i soli"

27 ottobre 2016 - Stavo parlando al telefono con mia figlia ad Ascoli, ieri sera, quando ho avvertito il terrore nel suo silenzio improvviso. Un terremoto, fortissimo, poi riesce a dire. Lei vive in un palazzo moderno. E subito dopo: mio Dio, chissà che cosa sarà successo di nuovo. A noi non è toccato, ma agli altri? E dove? Credo che non ci sia italiano che non abbia avuto l’esperienza di un terremoto, leggero, lontano, o troppo vicino. O che non abbia un parente, un amico, che ne ha un’esperienza diretta, o che non sia magari scampato a una tragedia. La paura del terremoto, sopita, o no, vive in ciascuno di noi. Di noi italiani.​

Mia figlia era in gita scolastica in Yugoslavia, e fu sorpresa dal terremoto nel 1979. Duecento morti. Non ho bisogno di cercare la data su Google, era il 15 aprile. Lo ricordo perché per due giorni fu data per dispersa con i suoi compagni. Da piccolo, a Palermo, mi raccontavano del terremoto e dello tsunami di Messina, quello del 1908, centomila morti, forse 120mila, per me lontanissimo, mio padre allora aveva pochi mesi. Eppure erano trascorsi quarant’anni, meno di quanti ci separano dalla sciagura del Belice, del ’68, poco meno da quello dell´Irpinia, del 1980. Il mio giornale mi mandò mesi dopo sui monti sopra Avellino. «Ci sono paesi che non hanno subìto danni, e che ora speculano per ottenere risarcimenti», mi disse il direttore. Non mi ricordo dove finii. Però, il sindaco di un paesino mi condusse sulla piazza che dava sulla vallata. «Vede quelle baracche laggiù?, mi indicò. Risalgono al terremoto del 1930. Se non sfruttiamo quest’occasione, quando mai vedremo un soldo?» Un discorso grottesco, e tragico. Un terremoto per risarcirne un altro.

L’Italia è una terra ballerina, si dice, ed è un modo di esorcizzare la tragedia, e la sua memoria. Non siamo i soli. Giunsi sempre in quel 1980 in Nicaragua, per parlare dei sandinisti che sfidavano gli Usa. Arrivai di notte, e non vidi nulla nel viaggio in taxi dall’aeroporto a Managua, la capitale. Al matttino aprii le tende e mi trovai al centro di una città che non esisteva. Distrutta dal terremoto del 1972. Le capanne sorte sulle macerie erano coperte dalle palme e dai banani. Dal mare di verde emergevano solo i campanili delle chiese. E sentii quelle rovine, intuite e che non vedevo, così vicine alla mia Sicilia. Di persona ho vissuto un terremoto da ridere. A Bonn, nella mia vecchia casa sul Reno. Tutti i miei libri nella notte furono sbalzati fuori dagli scaffali. Pensai che una delle smisurate chiatte fosse finita contro il molo sotto le mie finestre. Terremoto, erdebeben, sentii i miei vicini fuggire per le scale, urlando, in preda al panico. Quando il pavimento comincia a oscillare, per secondi senza fine, provi terrore perché sei senza difese, non ti puoi nascondere, non puoi fuggire, e ogni riparo si trasforma in una trappola. Una paura antica che ci accompagna da sempre. Sprofondata in noi.