Stranieri ma anche italiani: ecco i lavoratori invisibili nuovi schiavi nelle campagne

Fra Mantova, Lecco e Brescia le condizioni peggiori. Ecco chi lavora nei campi lombardi di Valentina Bertuccio D’Angelo

Una buona parte dei lavoratori in nero lavora in questo periodo alla vendemmia soprattutto nelle piccole aziende

Una buona parte dei lavoratori in nero lavora in questo periodo alla vendemmia soprattutto nelle piccole aziende

Milano, 1 settembre 2015 - Gli schiavi sono sotto i nostri occhi eppure non li vediamo. Mangiamo i frutti del loro sfruttamento, ma non lo sappiamo. Lombardia, terra di tante cose, anche di capolarato. La regione ospita undici degli ottanta epicentri italiani dove si pratica questa forma antichissima di predominio. E le vittime non sono solo stranieri, se è vero come è vero che in Italia, dove non meno di 400mila potenziali lavoratori in agricoltura rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato, il 20 per cento di loro è italiano. A snocciolare numeri da brividi è il secondo rapporto ‘Agromafie e capolarato’ stilato dall’osservatorio Placido Rizzotto, a cura di Flai-Cgil (edizioni Ediesse), aggiornato alla fine del 2014. Cosa significa finire nei campi passando prima per un intermediario? Un salario giornaliero che va tra i 25 e i 30 euro al giorno per dieci, dodici ore. Tra i due e i tre euro l’ora, seguendo il sole.

Chi lavora nei campi lombardi? Molti stranieri: i dati Inps Inail del 2011 stimano in 100mila lavoratori nel settore agroalimentare, di questi 21.600 sono stranieri. Tra le prime quindici province italiane per impiego di manodopera legale non italiana (che da sole assorbono il 50,6 per cento del totale degli stranieri impiegati in agricoltura), spicca con l’1,8 per cento, Brescia, dove è forte la comunità indiana del Punjab. Ma questa è una fotografia parziale perché l’agricoltura è da sempre tra i settori a più alta irregolarità lavorativa. Per l’Istat nell’ultimo quinquennio le irregolarità sono state più del 25 per cento nel 2012. «La necessità delle colture industriali e ortofrutticole di intensi carichi di manodopera, concentrati in alcuni periodi dell’anno, hanno favorito l’incontro con la presenza di tanta manodopera straniera, spesso irregolare e disponibile alle mansioni più umili», si legge nel rapporto.

Questo accade anche nella civilissima Lombardia, dove i periodi più critici sono la primavera, l’estate e l’inizio dell’autunno. Nelle zone ritenute a rischio caporalato si vedono più spesso indiani, pakistani, romeni, marocchini, senegalesi e albanesi. Il rapporto fotografa alcuni epicentri a rischio sfruttamento: il Mantovano, in particolare Sermide, dove si coltivano i meloni; il Bresciano, con epicentri in Franciacorta e Adro-Portolio (i lavoratori vengono soprattutto da Pakistan, India, Est Europa); il Lecchese. Qui il rapporto registra un grave sfruttamento diffuso. A Pavia, nella Bassa Bresciana, intorno a Milano, Como, Monza e Brianza, invece, ‘solo’ condizioni di lavoro indecenti. Sembrano esenti dal problema invece le zone di Sondrio, Bergamo, Lodi, Cremona e Brescia città. La situazione più grave è in provincia di Brescia, nella zona del Garda e tra Adro e Portolio, dove sussistono «lavori assimilabili a quelli paraschiavistici». Qui romeni, indiani, senegalesi e ghanesi lavorano in modo stanziale (nella maggior parte dei casi) e stagionale, il che vuol dire che vengono dai loro Paesi quando è tempo di raccolta e poi vi tornano, se non si spostano in altre zone. Sul Bresciano il rapporto si fa impietoso: nell’elenco di irregolarità riscontrate ci sono «grave sfruttamento lavorativo, impiego di manodopera irregolare, salari non pagati, impiego di caporali o di intermediazione illecita».

valentina.bertuccio@ilgiorno.net