Casse vuote e cordate di avventurieri: il fuorigioco di Como, Lecco e Pavia

La resa di società blasonate. Perfino i cinesi si tirano indietro

Anche i giocatori vivono con ansia l’attesa del responso

Anche i giocatori vivono con ansia l’attesa del responso.

Milano, 20 luglio 2016 - Blasoni calcistici lombardi in sofferenza: una mesta ricorrenza in questi anni di cronica crisi economica. A chi la tocca la tocca, come nella peste manzoniana, ma dal monte al piano è davvero una morìa che non risparmia realtà titolate, orgoglio locale, tradizione tifosa innervata, fierezza indigena, usi e costumi unici, che avevano un punto di riferimento esclamativo – in quest’Italia di dolore ostello e la nostra Lombardia non fa troppa eccezione – al prato e alla palla. Piccole patrie calcistiche disastrate, mancate iscrizioni ai campionati, declassamenti, casse in rosso e procedure di fallimento, avventuristiche cordate o improvvisati salvatori in dissolvenza sono gli attori e i convenuti di uno scenario. Il sottofondo a tanto sfascio è il triste ritornello del «bambole non c’è una lira», un avvitamento alla tristezza, alla ristrettezza e all’impotenza. È come se l’appassionato di calcio lombardo si fosse perso una serie di passaggi cruciali: dai rassicuranti filantropi del luogo, industriali dal portafogli a fisarmonica, col cordiale e sempice tornaconto del pallone (specie estinta e smemorata nel ricordo collettivo) a proprietà sfuggenti, improbabili e transeunti. Gli ultimi casi clinici sono, in essere o in risoluzione non positiva, quelli del Como, del Lecco e del Pavia.

Sul ramo non manzoniano del lago, c’è un club retrocesso dalla B che lotta a denti stretti per non fallire, pur essendosi già iscritta al campionato di Lega Pro. La partita estrema dei lariani si gioca in un’aula di tribunale. Lunedì scorso il Como ha presentato i documenti richiesti dal giudice riguardo l’istanza di fallimento della società. I documenti verranno esaminati durante l’udienza di domani, ma difficilmente il tribunale emetterà una sentenza definitiva, perché il giudice potrebbe demandare la decisione al Collegio, che si esprimerà in camera di consiglio. Fin a quel momento, dita incrociate e animazione sospesa. Sul ramo di Renzo e Lucia, semplificando assai, c’è il Lecco - con un patron, Daniele Bizzozero, agli arresti domiciliari e l’accusa di concorso in bancarotta - che attende venerdì, dopodomani, come il giorno del giudizio: è il termine ultimo per l’iscrizione. Si spera in un ripescaggio in Lega Pro, o almeno partire dalla serie D. Ma il club, per mano dei traghettatori e dei nuovi soci - un gruppo di investitori brianzoli che preferiscono per ora restare anonimi - deve consegnare alla Federcalcio 37mila euro che comprendono la quota d’iscrizione e parte della fidejussione. Anche per i tifosi lecchesi sono ore d’attesa e rischiano davvero (lo diremo per scaramanzia) di avere le domeniche libere.

Infine, dove mugghia il Ticino, c’è il fantasma d’amore del Pavia Calcio, che s’era illuso in un futuro di prosperità con l’avvento di patroni cinesi che se ne sono invece disimpegnati in breve. La morale è un piatto di riso amaro. Ieri, come previsto, il consiglio federale tenutosi oggi a Coverciano ha ufficialmente escluso il Pavia dal campionato di Lega Pro. O meglio, la formula corretta è quella della mancata iscrizione del club azzurro insieme a Sporting Bellinzago, Martina Franca, Rimini e Virtus Lanciano. Ma non tutto è perduto quaggiù, almeno lo spirito combattivo della base: il sindaco Massimo Depaoli sta vagliando le situazioni possibili per ripartire (almeno) dai Dilettanti. Una cordata di imprenditori locali rappresentata dall’ex direttore generale (fino a un anno fa) del Pavia, Massimo Londrosi, si sarebbe proposta per presentare la domanda di ammissione alla Lega Nazionale di serie D.