Esce dal carcere il sagrestano che uccise in chiesa la studentessa Elena Lonati

Mite, taciturno, sempre con gli occhi bassi, benvoluto da tutti. Un “detenuto modello”, dice chi entra in contatto con lui. Ancora un anno e Chamile Ponnamperumage Wimal, cingalese 31enne condannato a 18 anni e 4 mesi per omicidio, inizierà a uscire dal carcere di Beatrice Raspa

Da sinistra, il sagrestano Chamile Wimal e la vittima Elena Lonati

Da sinistra, il sagrestano Chamile Wimal e la vittima Elena Lonati

Brescia, 15 dicembre 2014 - Mite, taciturno, sempre con gli occhi bassi, benvoluto da tutti. Un “detenuto modello”, dice chi entra in contatto con lui. Ancora un anno e Chamile Ponnamperumage Wimal, cingalese 31enne condannato a 18 anni e 4 mesi per omicidio, inizierà a uscire dal carcere. Nel 2015 avrà espiato due terzi della pena e potrà ricominciare a rimettere piede nel mondo, lasciando Canton Mombello che dal 2006 è la sua casa. Lo spartiacque nella vita di questo giovane e in quella di un’altra famiglia bresciana è segnato da una data sul calendario otto anni fa. Era il 18 agosto. Chamile, sagrestano nel vecchio santuario di Santa Maria nel quartiere di Mompiano a Brescia, dove chiunque lo conosce come Camillo, uccise in chiesa una studentessa, Elena Lonati.

Un’altra ragazza modello, proprio come il suo assassino, morta a soli 23 anni in un frangente incredibile. Una vicenda che scosse profondamente la città, infuocata da sette morti ammazzati in provincia in soli diciassette giorni. «Ho perso la testa», si giustificò Chamile costituendosi il giorno dopo il delitto. Era mezzogiorno, e lui stava per chiudere il santuario. Fu allora che Elena, che a suo dire non conosceva personalmente, entrò per accendere una candela. Secondo la confessione del ragazzo ne nacque un battibecco. Il sacrista l’avrebbe invitata a uscire ma la 23enne si sarebbe attardata. Una discussione, una spinta di troppo e fu così che lei cadde all’indietro, picchiando la testa sull’appoggiapiedi di un banco. A quel punto Chamile, spaventato, anziché fare la cosa più ovvia, chiedere aiuto, sarebbe entrato nel panico credendo Elena morta, quando in realtà era solo svenuta. Si procurò sacchi di plastica e nastro adesivo, vi “impacchettò” il corpo, con tanto di scotch girato sulla bocca e sul collo della malcapitata, e lo trascinò su una scala di un pulpito. La studentessa morì soffocata, attestò l’autopsia. La sera Camillo seguì regolarmente la messa, dormì a casa. E il giorno dopo telefonò al parroco facendo trovare il cadavere.

Dal carcere il sagrestano scrisse una lettera piena di scuse e pentimento alla famiglia Lonati. «Ha sempre ritenuto giusto dover pagare per quanto era successo» spiega l’avvocato Marco Capra, che incontra il suo assistito regolarmente a Canton Mombello. In otto anni il cingalese non ha mai cambiato versione: un raptus omicida dettato dal panico, una parentesi di violenza inspiegabile. «Ormai conosce il carcere come le sue tasche – continua il legale -. Lavora come spesino, si occupa quotidianamente di fare consegne ai detenuti. Nel 2015, calcolando lo sconto di 150 giorni all’anno, Chamile potrà iniziare a godere della semilibertà. E quando gli rimarranno da scontare solo tre anni penseremo all’affidamento in prova».

beatrice.raspa@ilgiorno.net