La bomba atomica di Hiroshima sulla testa. Oggi coltiva “bonsai della pace”

Shozo Tanaka da bambino visse il disastro nucleare del 6 agosto ’45 di Gabriele Moroni

Oggi Shozo Tanaka coltiva bonsai affacciato sul Garda

Oggi Shozo Tanaka coltiva bonsai affacciato sul Garda

Il 6 agosto 1945 alle 8:16 e 8 secondi (ora del Giappone) Little Boy, la prima bomba atomica ad essere utilizzata in un conflitto militare, esplose su Hiroshima ad un’altitudine di 576 metri con una potenza pari a 12.500 tonnellate di tnt. Little Boy provocò oltre 60.000 morti saliti a 100.000 negli anni seguenti a causa delle radiazioni con 180. 000 persone sfollate. Nel 2002 gli hibakusha (i colpiti dalle radiazioni del fallout nucleare), nonostante i 57 anni trascorsi, erano 285.000.

Padenghe sul Garda (Brescia), 5 luglio 2015 - «Pensi che ancora lo scorso anno a Hiroshima sono morte settemila persone vittime delle radiazioni. Come lottare per tutta la vita con un cancro che alla fine ha vinto». L’atomica di Hiroshima è passata sulla testa di quest’uomo timido, gentile come solo i giapponesi sanno esserlo, che con la moglie Tomoko e i figli Kimiharu (Leonardo) e Kiminori (Francesco) coltiva bonsai affacciato sul Garda, circondato dalle dolci colline moreniche. I “bonsai della pace” sono i prediletti e non li mette in vendita perché li considera come se fossero tanti figli. Shozo Tanaka mostra la carta d’identità che porta in tasca da quando, nel 2001, dopo trentaquattro anni di attesa, è diventato cittadino italiano: Hiroshima, 1 novembre 1936, è la data stampigliata. Sorride. Non doveva essere molto diverso il sorriso del bambino che la mattina del 6 agosto del 1945 giocava nel cortile della scuola, nel sobborgo di Miyauchi.

Oggi Shozo Tanaka coltiva bonsai affacciato sul Garda

«Alle sette e mezzo del mattino è suonata la sirena. Poi altri tre suoni per segnalare un pericolo grave. “Bello, ho pensato, oggi niente scuola. La sirena è suonata ancora una volta. I miei mi hanno portato lo stesso a scuola, era a meno di duecento metri da casa. C’era un grande cortile. Mi sono fermato a giocare fino a quando i maestri non ci hanno chiusi in classe». Diciassette secondi dopo le 8.15 il comandante Paul W. Tibbets dà l’ordine di sganciare su Hiroshima la bomba atomica “Little boy”.

«È stato come una lampada che si accendeva, una grande luce arancione. Ho pensato: “Ma perché accendono le luci di giorno?”. Un rumore fortissimo. Tutto l’edificio ha vibrato. Il cielo cambiava colore di continuo, rosso, blu, giallo. Si era alzato un vento forte. Sembrava che le nuvole si rincorressero. Ci siamo buttati a terra. Ci siamo messi le mani sugli occhi e tappate le orecchie. Anche con gli occhi chiusi continuavamo a vedere rosso. Quando li aprivo vedevo i miei compagni tutti rossi. I maestri ci hanno portato nel rifugio. Siamo rimasti lì fino a mezzogiorno, quando ci hanno mandato a casa».

Nel pomeriggio il bambino Shozo viene a sapere della bomba atomica. E incontra l’orrore. «Faceva molto caldo e andavo con i miei amici a fare il bagno nel fiume Mitarai. Il fiume era diverso, aveva il colore della terra. Saranno state le tre, le tre e mezzo. Abbiamo visto avanzare un gruppo di venti, trenta persone. Poi un altro gruppo, altri ancora. A piedi, in bicicletta. Una processione. Gente con i capelli bruciacchiati, il volto, le braccia, le gambe ustionate, la pelle rossa, rossa come l’aria della mattina. C’erano dei bambini che camminavano da soli e piangevano. “La città è distrutta, sta bruciando”, gridavano. Ci hanno chiesto dov’era il rifugio, dov’era il tempio».

Hiroshima. il giorno dopo. «La mia scuola era stata trasformata in ospedale. Migliaia e migliaia di persone erano stese sul pavimento. Molti erano bambini che dicevano solo tre parole: “Mamma, acqua, male”. Bevevano e subito morivano. Ricordo un bambino che poteva avere la mia età, dormiva tutto nudo, si svegliava, chiamava la mamma e chiedeva dell’acqua. C’erano persone con metà corpo carbonizzata e l’altra metà intatta, altre completamente affumicate. In cortile c’erano cataste di morti. Li portavano via con i carri. Con mio padre che mi teneva per mano siano andati a cercare un mio cugino che studiava in città. Aveva sedici anni. Hiroshima era deserta. I treni rovesciati, le rotaie divelte. Allora i bambini portavano dei piccoli rettangolini di stoffa con nome e cognome cuciti sulle giubbe e sulle maglie.

Abbiamo trovato quello con il nome di mio cugino sopra un cumulo di macerie. Lui era svanito. Cancellato. Anche un nostro vicino di casa, un ragazzo suo coetaneo, non è stato più ritrovato. Il figlio del prete era di quelli che andavano a scuola in città. È tornato a casa saltando da una vasca all’altra. Deve sapere che davanti a ogni abitazione c’era una vasca d’acqua destinata a spegnere gli incendi dopo i bombardamenti. Questo ragazzo era rimasto ustionato. Trovava una vasca e s’immergeva, usciva, ne trovava un’altra, si immergeva di nuovo, usciva. Così fino a quando non è arrivato a casa. Si è laureato, è diventato prete come suo padrei».

Si accende una delle tante sigarette della giornata. Prova odio, signor Tanaka, lo ha provato? «Mai. Odio la guerra, questo sì. Faccio il paragone con i miei bonsai. Loro sono la natura, la guerra è contro natura. Chi non ha visto la guerra non può capire. Ho parlato di Hiroshima ai miei figli. Mi hanno creduto, hanno capito. Ma è stato difficile spiegare anche a loro: non avevano visto». La signora Tomoko porta il tè. Abbraccia il marito con un lungo sguardo protettivo. Shozo Tanaka ha ancora una cosa da dire. «Torno a Hiroshima quasi tutti gli anni. Ho una sorella, parenti. Qualche anno fa ho accompagnato degli amici italiani nel Museo della Pace, dedicato alla tragedia della città. Mi hanno detto che non ci sarebbero entrati mai più».

gabriele.moroni@ilgiorno.net