Droga sparita, poliziotto a processo

I colleghi in aula: "Solo lui aveva le chiavi dell’ufficio reperti"

E' iniziato il dibattimento con i primi testimoni

E' iniziato il dibattimento con i primi testimoni

Brescia, 27 maggio 2015  – Per i colleghi  della Mobile che lo hanno arrestato, a fare sparire quei due etti di coca dell’ufficio corpi di reato del commissariato Carmine è stato lui, l’assistente capo Vito Trupia, da novembre ai domiciliari e da ieri a processo per peculato.Secondo l’accusa Trupia, tra il luglio 2011 e l’agosto 2014, si è intascato a più riprese lo stupefacente sequestrato nel corso delle operazioni. Davanti ai giudici – presidente, Roberto Spanò – in un’aula affollata di poliziotti, è iniziato il dibattimento, con l’escussione dei testi del pm Isabella Samek Lodovici. Al centro dell’udienza, il sistema di custodia dei reperti e le testimonianze di due donne, amiche tra loro, da cui sono partite le segnalazioni in merito a comportamenti anomali dell’imputato, sospettato di essere cocainomane. Ma anche presunte minacce di morte da parte del padre (ora deceduto) dell’assistente capo a una delle due, per convincerla a ritrattare.

"Un giorno gli ho trovato polvere bianca in tasca - ha detto Carla (nome di fantasia), una burrascosa storia di 4 anni con Trupia, che era sposato -. Una volta quasi vantandosi mi ha riferito che la prendeva dall’ufficio. Mi ha detto che avrebbe smesso, gli ho fornito il recapito di un centro di recupero". La donna però non ha subito raccontato alla polizia le confidenze ricevute ma lo ha fatto solo dopo che l’amica di lei si era rivolta all’Anticrimine per aiutarla. Dichiarazioni che la difesa sospetta siano state mosse da un desiderio di vendetta nei confronti di Trupia, il quale non lasciava mai la moglie. «Lui aveva una pistola, giravano alcol, coca e frustrazione - ha chiarito l’amica della prima -. Trupia distruggeva Carla, le faceva stalking e lei per tre volte ha tentato il suicidio».

Per la procura il poliziotto sniffava coca sottratta al commissariato, dove la Digos ha trovato reperti spacchettati e verbali manomessi. "L’ufficio reperti era uno sgabuzzino con un armadio di cui solo lui aveva le chiavi - ha testimoniato il collega Emanuele Chirivì -. Fino al 2011 il materiale di valore veniva custodito in questura, poi al commissariato. Alla stanza poteva accedere chiunque con un secondo mazzo di chiavi depositato al posto di guardia, ma bisognava registrarsi". E l’assistente Fabio Monaco: "Solo Trupia aveva la chiave dell’armadio. La droga sequestrata veniva lasciata sulla sua scrivania e poi se ne occupava lui".