Brescia, 11 ottobre 2010 - Lo spiedo non può essere considerato solo un modo primitivo di cucinare. Nel bresciano anzi, è diventato una forma di cultura. Non a caso il mio libro sull’argomento è intitolato “Brescia e la civiltà dello spiedo” (Compagnia della Stampa Massetti e Rodella editori). Non c’è bresciano i cui occhi non brillino nel nominare lo spiedo perché l’essere cacciatore è probabilmente inserito nel nostro codice genetico. La passione venatoria della nostra terra si esplica, soprattutto, nei confronti della selvaggina di penna forse anche perché nel Medio Evo erano frequenti le proibizioni nell’abbattimento di animali di grossa taglia. Nel bresciano non esiste un unico modo di spiedare. Possiamo dire che ce ne sono infiniti, da quello bresciano o valtrumplino, a quello valsabbino o gardesano (legato soprattutto alla Valtenesi), ma anche le distinzioni prevedono mille varianti. Cerchiamo di amarlo questo modo di cucinare, di rispettarlo e non demonizzarlo in maniera superficiale o per presa di posizione...

Nel libro pongo in evidenza come molti letterati italiani abbiano parlato in modo positivo ed entusiastico di questa nostra singolare pratica culinaria. Certo anche da questo punto di vista un argomento come questo offre innumerevoli approcci. Tra storia e amore viscerale per le tradizioni vere della nostra terra (che niente hanno a che vedere con bracconieri o devastatori ecologici), abbiamo un universo che si mostra non solo attraverso le vicende aneddotiche, ma anche attraverso l’interpretazione di un linguaggio con i suoi messaggi. Spiedo, caccia e cultura, qui da noi, hanno un legame davvero strettissimo tale che, afferma Lévi-Strauss, «la gastronomia rappresenta un sofisticato sistema di comunicazione, ricco di regole spesso inamovibili, in cui la grammatica è rappresentata dalle vivande e la sintassi dalla loro successione». E come negarlo!