Montichiari, 15 marzo 2012 - Man mano che ci si avvicina ai cancelli di Green Hill, l’abbaiare dei cani, ben 2.500, si fa più forte. Ad accoglierci Bernard Gotti, biologo in pensione e consulente della Marshal esclusivamente per Green Hill. Inizia così il nostro viaggio nell’allevamento di beagle destinati a case farmaceutiche o cosmetiche. Subito una domanda: dottor Bernard, perché i beagle? «Sono cani sensibili e socievoli e in una sperimentazione anche questo conta — spiega il biologo —. Poi ci sono tutti gli altri fattori, uno fra questi il peso: al massimo 9 chili, ciò significa che il prodotto testato sarà di bassa quantità. Senza contare che si fanno esperimenti su questa razza da 40 anni e quindi ci sono tanti precedenti, dati utili su reazioni e prove». Il che significa meno esami, meno sofferenza.

Prima di visitare i cinque capannoni dove sono rinchiusi gli animali, ogni anno ne vengono alla luce almeno tremila, saliamo negli uffici, dove inizia il nostro colloquio. Difficile trovare un equilibrio: da una parte il pensiero è rivolto agli animali, dall’altro alla sperimentazione. «Sono fiero di svolgere questo lavoro — continua Gotti — Green Hill rappresenta il primo tassello di una lunga catena che porta poi alle medicine necessarie per vivere. Fare sperimentazione è un obbligo morale». Il dottor Gotti spiega il suo punto di vista. «Nessuno riflette sull’importanza delle cure mediche — continua il consulente — Quando siamo in ospedale perché malati, le medicine servono».

Vero, purtroppo. Ma che senso ha testare i prodotti sugli animali quando l’oggetto non è l’ultima pillola salvavita, ma un cosmetico? «Posso capire, qui si fa più fatica — sorride Gotti — ma la crema antirughe fa comodo. E se facesse allergia?». Ci togliamo subito il pensiero. «Non c’è un altro modo di fare ricerca — chiarisce il biologo — anche le case farmaceutiche sarebbero d’accordo: sperimentare sugli animali ha un costo anche per le aziende, un prezzo che risparmierebbero volentieri».

Un'ora di chiacchierata, poi, visitiamo i capannoni. Cinque strutture nuove, color arancione, immerse nel verde. A disturbare la vista, solo l’abbaiare dei cani. Entriamo in una delle strutture, quella destinata alla riproduzione. Indossiamo tutte, laviamo le mani e accediamo alle gabbie. Tante, tantissime, una dietro l’altra. Alla nostra vista, i cani, di diverse età, iniziano ad arrampicarsi vicino alle sbarre. Effettivamente sono molto socievoli, qualcuno, una volta aperto il cancelletto, ha paura di uscire, ma poi si fa coraggio e si lascia coccolare. La struttura è curata e pulita, nulla da obiettare. Nelle gabbie qualche giocattolo, ma sembra che i cani preferiscano più annusarsi fra loro, fra una grata e l’altra. A terra tanta segatura. A voler trovare un cavillo fuori posto, non ce n’è. L’areazione è controllata, ogni gabbia ha il suo mangiare, «il cibo è importante — spiega Gotti — un cane affamato è un cane arrabbiato».

Ogni mattina i capannoni vengono lavati, una volta al mese vengono disinfettati. Il personale è a disposizione fino all’ora di pranzo, nel pomeriggio restano solo i veterinari in sala parto, ma, ci assicurano, «il personale gioca con loro, ogni giorno. Li prendono in braccio, li visitano. Non sono abbandonati». Intanto non vedono mai la luce del sole ed escono solo per una passeggiata nel corridoio.

Il veterinario Renzo Graziosi, lavora lì da quattro anni, ci illustra le fasi dei controlli per la riproduzione. Gli esami iniziano a quattro mesi di vita. Si deve accertare che conformazione, sangue e qualsiasi altro elemento utile, sia perfetto. «I cani con qualche “difetto” — spiega il veterinario — vengono donati alle associazioni. Paghiamo tutto noi, anche il trasporto. Gli altri venduti». Circa tremila ogni anno.
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