Brescia, 17 novembre 2010 - Pioveva a dirotto la mattina della strage a Brescia. Ma è stata un’altra acqua a mettere il primo, pesante tassello di una catena che non ha mai consentito di dare un nome ai mandanti e a chi quella mattina del 28 maggio di 36 anni fa ha messo una bomba in un cestino di rifiuti che ha fatto 8 morti e 102 feriti. È l’acqua che per ordine di un funzionario della Questura poco dopo la strage lavò la piazza portandosi via il sangue ma anche i reperti, le tracce della bomba e chissà che altro, le prove.

 

Un gesto per togliere dalla vista dei bresciani l’orrore di quei poveri corpi, fu la motivazione data per quella decisione. Fu insipienza di un funzionario maldestro o altro? Perché in nove processi, l’ultimo concluso ieri, le tracce della verità su piazza della Loggia come su altre stragi che hanno insanguinato l’Italia, sono emerse nel processo di Brescia. Un processo condizionato dal tempo, testimoni, perfino un imputato, Giovanni Maifredi braccio destro di un altro imputato ieri assolto, il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che all’epoca della strage condusse le indagini, che non sono più in vita. Ma anche in aula tanti non ricordo e silenzi di chi qualcosa poteva forse dire per fare un passo verso la verità. Tracce di depistaggi e coperture messi in atto da pezzi dello Stato, da servizi segreti sempre definiti deviati, sono emerse nel processo.

 

Occorrerà leggere la sentenza per sapere quali elementi hanno spinto la Corte d’assise a decidere di inserire nel verdetto di assoluzione per gli 8 imputati per i quali l’accusa aveva chiesto l’ergastolo quell’articolo del codice penale e quel comma, l’articolo 530 comma 2 del codice di procedura penale che vale la vecchia insufficienza di prove. Qualcuno dirà: tante energie, tanti soldi pubblici spesi per niente, per una verità che ancora una volta non c’è. Ne valeva la pena, invece, per quegli otto morti.