11 ottobre 2010 - Valsabbia Il padre è rimasto allibito, il figlio è scappato. Per poco. L’hanno preso 50 metri più in là della rete stesa per catturare i pettirossi. Il bracconaggio come passione di famiglia. Al Passo del Cavallo, tra Lumezzane e la Valsabbia, agenti e sottufficiali del Corpo Forestale dello Stato erano arrivati dopo una notte di controlli. Sveglia alle 3,30, poi arrampicate, spostamenti, fino all’incontro tanto atteso. È avvenuto alla periferia di Lumezzane, stavolta si è trattato di bracconieri un po’ pantofolai, perché di solito mettono le trappole in zone più impervie. Il padre, 61 anni è anche cacciatore, con regolare licenza, ma questo serve solo ad aggravare la sua posizione. Nella rete della Forestale i due sono finiti nella tarda mattinata di un sabato mattina che, anche economicamente, non dimenticheranno. Nella migliore delle ipotesi il brivido del proibito, costerà sugli 800 euro.

 

Questa sono i giorni del passo e le valli bresciane sono attraversate da milioni di uccelli diretti verso l’Africa e provenienti da tutto il Nord Europa. La rete di una ventina di metri stesa tra i noccioli ne ha fermati una decina, tra quelli che hanno deciso di riposarsi nel bresciano. Quando padre e figlio sono arrivati per toglierli, sono spuntati quelli della forestale, pantaloni con un pezzo di bosco stampato sopra, felpe intrise d’umidità e di sudore.
Poi, la telefonata al comandante Furlan: «Li abbiamo presi». Lui è arrivato da Bovegno, dove in quella che era una piccola scuola di montagna, ha sede la stazione, e ha seguito minuziosamente le operazioni di rilascio dei pettirossi rimasti per ore nella rete. Con un coltellino è stato tolto dalle penne ogni frammento di rete. Una cura e un’attenzione che farebbero la gioia anche di qualsiasi essere umano, in una società dove non sempre la sanità coincide con la perfezione.


Poi le mani si sono aperte e la macchia arancione sul petto si è persa tra il blu e il verde. «Li sente? — ha chiesto Furlan — è un cinguettio di gioia, quello che emettono quando stanno male, nella rete è completamente diverso». Di quei pettirossi, però due avevano le ali bagnate. Li hanno portati a Bovegno per essere riscaldati e liberati in condizioni idonee al volo. Poi la rete è stata rimossa, caricata in macchina.
Finirà, impacchettata, in Procura a Brescia, all’ ufficio Corpi di reato. La giornata della Forestale che vigila sulle migrazioni nel bresciano, è lunga. Inizia a notte fonda e finisce quando il sole tramonta. «Queste reti — spiega ancora un ispettore — erano già state controllate ieri da chi le aveva collocate, c’erano tracce fresche».

 

Il comandante si complimenta e riparte per Bovegno. Dalle pattuglie sparse in tutta la valle, arrivano le notizie. «Un’altra rete» commenta soddisfatto. Non sono sempre telefonate, a volte è una mail via telefonino «perché così non si fa rumore, quando bisogna segnalare». Ma tra i boschi bresciani, i 29 dell’operazione “Pettirosso” hanno il loro da fare. Ieri in due erano influenzati e la febbre è uno dei nemici più ostici. «Abbiano sempre il ricambio nello zaino — spiega uno di loro — ma bisogna correre, scalare e poi ci si ferma nell’umidità dei boschi». Nella sala radio, a pochi metri dagli achetti accatastati a centinaia, dai pettirossi allineati come le vittime di una strage, si sussegono le notizie dai monti. Fuori nel giardino della piccola caserma, ci sono le bacche rosse per sfamare chi attraversa i cieli bresciani. Non sono innescate, come tante altre, su archetti e sep, trappole che fermano per sempre un viaggio antico come il mondo.