Processo Yara. Viso abbronzato, pizzetto e jeans, Bossetti in aula: "Ora la verità"

È calmo, ogni tanto il mento si muove ritmicamente nella masticazione di qualcosa. A tratti pare mormorare una parola. Solo di tanto in tanto un rapido movimento dei piedi tradisce un attimo di tensione di Gabriele Moroni SCHEDA - FOTO - VIDEO

Il tribunale di Bergamo, nel riquadro Massimo Giuseppe Bossetti

Il tribunale di Bergamo, nel riquadro Massimo Giuseppe Bossetti

Bergamo, 4 luglio 2015 - «Ho aspettato tanto questo giorno. Adesso ci siamo. Finalmente. La verità deve venire fuori. L’ho voluto io il processo in Assise, ci sarò in tutte le udienze». Non sono ancora le 8.30 quando Massimo Bossetti s’infila, ammanettato, nella gabbia di vetro. Una rapida occhiata al pubblico (una ottantina di persone e altre sono rimaste fuori) e ai giornalisti, pigiati nelle ultime due file che al suo arrivo sono scattati in piedi dai 34 posti a loro riservati come per vederlo meglio, per la prima volta dal vivo. L’uomo processato per l’omicidio di Yara Gambirasio è piccolo, minuto, quasi esile. Un anno di detenzione non ha cancellato l’abbronzatura perenne da muratore. Polo azzurra con colletto blu, jeans, ai piedi sneaker bianche. I capelli tirati con il gel sono tornati, da biondo ossigenati, al marrone naturale. Sul mento è sopravvissuta la «mosca». Gli tolgono le manette. Si siede a un tavolo quadrato nero, rivolto alla Corte, la presidente Antonella Bertoja, il giudice a latere Ilaria Sanesi, gli otto giudici popolari (sei effettivi e due supplenti), quattro uomini e quattro donne. Segue il dibattimento con attenzione.

È calmo, ogni tanto il mento si muove ritmicamente nella masticazione di qualcosa. A tratti pare mormorare una parola. Solo di tanto in tanto un rapido movimento dei piedi tradisce un attimo di tensione subito rientrata. Alle sue spalle tre agenti della polizia penitenziaria, fra cui una donna. Il giorno più lungo di Massimo Bossetti dura solo due ore e mezzo, il processo viene aggiornato al 17 luglio. I difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini lo raggiungono nella sua prigione di vetro. Scambio di sorrisi e strette di mano. «Massimo – scherza Camporini –, pensa all’udienza del 7 luglio. È quella importante. Fa’ un po’ di scongiuri». Martedì la Cassazione discuterà il ricorso della difesa contro l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Brescia che per la seconda volta aveva negato la scarcerazione o gli arresti domiciliari. «Mi sento più tranquillo, ho molta fiducia nella giustizia. E poi domani vedo mia moglie e i miei figli», dice Bossetti accomiatandosi dai suoi legali. Porge i polsi alle manette. Lo riportano nel carcere bergamasco di via Gleno dove vive dal 16 giugno di un anno fa. Non ci sono i genitori di Yara. Fulvio e Maura verranno soltanto quando sarà il loro turno di deporre. È subito guerra di posizione. I difensori sollevano quattro eccezioni di nullità. Nel capo d’imputazione non è specificato il luogo, se Brembate di Sopra o Chignolo d’Isola, e l’orario dell’omicidio. Il prelievo della saliva con il boccaglio dell’alcoltest, per poi ricavare il codice genetico di Bossetti, venne effettuato la sera del 15 giugno del 2014, quando l’artigiano non era ancora formalmente indagato. Inutilizzabile il Dna trovato su leggings e slip della vittima (risultato assolutamente compatibile con quello dell’imputato) perché il test è irripetibile. Non sono da considerare validi gli atti dal primo giorno del secondo anno dell’inchiesta perché la procura non avrebbe chiesto la proroga delle indagini. «È tutto regolare, le risposte alle eccezioni sollevate sono già nei documenti», replica il pm Letizia Ruggeri. La rappresentante dell’accusa nega il suo assenso alle telecamere in aula e aggiunge una critica ai media: «Devo anche rilevare che alcuni organi di informazione non hanno tenuto comportamenti corretti. Hanno diffuso notizie che non dovevano essere diffuse. Un comportamento che poterbbe nuocere alla serenità e anche all’esito del dibattimento».