L’Islam in fabbrica: spazi per pregare e l’azienda cresce

Il caso Gatti: 70 dipendenti, solo 19 gli italiani

Pietro Pini e Monica Gatti

Pietro Pini e Monica Gatti

Ghiaie di Bonate Sopra (Bergamo), 16 aprile 2017 - «Lo dico io, da italiano. Loro hanno molto più volontà di lavorare e di imparare». In quel «loro» Stefano, 38 anni, operaio, ci mette tutta la distanza raccontata dai numeri. Settanta dipendenti: 19 italiani, 51 stranieri. La Gatti, azienda formato famiglia dell’Isola Bergamasca (una decina di chilometri da Bergamo), ha superato la crisi facendo crescere l’occupazione (da 48 assunti a 70). La manodopera è soprattutto straniera. Ma nei capannoni si parla italiano per «regola aziendale», spiega la proprietà. Sono soprattutto loro, gli extracomunitari, a rifornire la produzione meccanica di clienti del calibro di Brembo e Mazzucconi, tra le massime espressioni del made in Italy nel settore freni e sterzi per auto e moto. «Qui - spiegano Pietro Pini (produzione), Sonia (amministrazione e acquisti) e Monica Gatti (qualità), seconda generazione subentrata a metà degli anni Novanta alla guida della Gatti - arrivano i pezzi dalle fonderie. I nostri dipendenti li lavorano, rimuovendo bave esterne e difetti prima di restituirli al cliente per la fase successiva. L’attività richiede attenzione, competenza e abilità manuale: dedichiamo una formazione iniziale e ore di aggiornamento. “Vendiamo” manodopera: è la nostra risorsa». Quella italiana si vede a fatica negli oltre 3mila metri quadrati del capannone.

In piedi, nei reparti, è più facile contare operai del Burkina Faso (Africa Occidentale), una ventina. Marocchini e cinesi. Karim, 45 anni, lavora qui dal 2004. «Sono scappato dal Marocco per la povertà: ho viaggiato nascosto in un camion fino a Torino. Ho lavorato in un supermercato, ho fatto un altro lavoro come metalmeccanico e poi sono arrivato qui», racconta in un italiano che tradisce fatica e volontà di migliorare. «È una regola da rispettare», sottolineano i vertici. «Abbiamo investito molto nei corsi: vogliamo che tutti, anche durante la pausa pranzo, parlino in italiano». Questione di regole, spiega l’azienda. Che non ha badato a spese per riconoscere i diritti. Karim è musulmano. Accanto agli spogliatoi, dove i dipendenti si cambiano prima e dopo il turno, la Gatti ha allestito uno spazio per la preghiera. «Nell’orario di lavoro prego qui. Mi fermo, però se serve lavoro di più». L’azienda conferma. «Possono professare la religione anche durante il turno. Ma non tra i macchinari: abbiamo allestito uno spazio vicino agli spogliatoi da destinare ai dipendenti musulmani». È l'unica “divisione, creata «non per separare ma per rispetto». Per il resto, i 5.800 metri quadrati del sito produttivo sono simbolo di integrazione - «stiamo bene anche nel tempo libero insieme», racconta Karim. «Andiamo d’accordo», conferma Stefano, qui dal 1994 - e di trasformazione verso un modello 4.0. «Specializzazione e suddivisione in reparti convivono con la flessibilità richiesta da clienti come Brembo e Mazzucconi - osserva Pini, responsabile della produzione -. Lavorare con grosse aziende significa rispondere a ordini con tempi “oggi per oggi”. Occorrono dipendenti disposti a queste logiche: può succedere che una giornata lavorativa si prolunghi e che, per compensare, il giorno successivo si consenta loro di iniziare dopo». I numeri danno ragione: 6,5 milioni di pezzi all’anno e un fatturato in crescita, che supera i 4 milioni. Poi c’è la tecnologia. Tremila metri quadrati di rete wireless e una cinquantina di tablet connessi a un server per registrare i flussi produttivi in tempo reale. Pause comprese.